Nel nord Italia ci sono almeno due mostre “a portata di pomeriggio” che meriterebbero di essere viste. La prima è anche una delle più chiacchierate del momento, quella di Balthasar Klossowski, alias Balthus (ma davanti ai quadri pronunciate assolutamente Balthùs, con le labbra a culo di gallina). Il nome ha abbastanza consonanti slave da suonare logorato da tutti gli arbasino d’europa, ma il pittore non lo è lo stesso. Anzitutto a Palazzo Grassi ci si va sempre volentieri. Un caffè da Cipriani, e prima i ‘cicheti’, il fragolino, magari il baccalà mantecato. E poi Balthus è davvero un tipo interessante. Ha quest’aura di “alta cultura”, da amico di Giacometti, da collaboratore di Artaud, da quello che si faceva comprare i quadri da Picasso, da fratello di Klossowski (il Pierre autore di uno dei titoli più erotici della letteratura francese “Roberta stasera”), da bimbo cresciuto sulle ginocchia di Rilke (la frase che riecheggia da mattina a sera nelle voci dell’atrio è: “del resto Rilke si scopava sua madre”). Entrando c’è davvero da chiedersi se nonostante tutto questo uno può mettersi a dipingere qualcosa di interessante. Forse sì. I corpi di Balthus più li guardi più ti colpiscono. Anche se si sente più spesso parlare dello spazio e delle strane prospettive o delle proporzioni alterate, quello con cui si esce sono le posizioni, in tutto due o tre ridipinte per un cinquantennio, di questi tizi e di queste tizie così fantasmatici e così carnali. Intorno a voi si sprecheranno i commenti sulla pedofilia quindi moderate l’entusiasmo davanti alle prime minorenni depilate o a quattro zampe. Per il resto c’è da ricordare una frase che si può ascoltare ripetutamente nel bel filmato in inglese che si può vedere nell’ultima sala e anche leggere su una parete. Cioè che lui non capisce come si possa dipingere per esprimere se stessi, per comunicare se stessi, la propria vita le proprie emozioni. L’arte serve a parlare d’altro, mica di sé. Come non provare una straordinaria attrazione, di questi tempi, per un pensiero del genere. Quando sembra che le uniche parole o le uniche forme si possano raccogliere nell’orto dell’esperienza vissuta, o che l’unico romanzo possibile sia quello lirico di un’io minore. Balthus fa veramente venire voglia di andare a cercarsi qualcosa da dire senza pensare a dove si è, a cosa si fa, a chi si crede di essere. Forse la “cultura alta” di inizio Novecento è qui anche per ricordare questo.

E non importa che il vecchio pittore nel suo bel castello francese abbia poi dipinto più di un autoritratto. C’è una sala in cui ci sono anche dei ritratti di altri pittori (Renoir, Mirò...). Balthus li dipinge affetti da nanismo, bassi tracagnotti, quasi con le gambette monche; se stesso si fa alto, slanciato, con duo gambe lunghe e sottili fuori misura. L’autoritratto più bello è quello con i gatti. Lui in piedi fra i felini. Titolo: “Le roi des chats”; in inglese sulla targhetta: The king of pussy. La traduzione italiana non rende l’idea, ma forse l’unico narcisismo ancora sensato è davvero quest’ultimo.



Per la seconda mostra non c’è tempo. Sono i sacchi di Burri a Reggio Emilia. Da guardare senza sparare troppe cazzate, né prima né dopo.

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