Quella generazione non so che...



Far parte di una generazione sarebbe bellissimo. Anzi, è senza dubbio bellissimo, perché molti ne fanno parte. Stare a correggere l'uso della parola è una battaglia nobile ma quasi certamente persa in partenza. Tanto la parola salta fuori. Per esempio, è ovvio che alla generazione o ci si iscrive da soli, o ti ci iscrive qualcuno, ma una volta dentro ti tieni anche la parola e vedrai che usarla ti risolverà diverse situazioni intricate.



Il biglietto d'ingresso si stacca perlopiù fra i Trenta e i Quaranta (ma anche molto oltre) e la situazione più tipica è quella della "pubblica dichiarazione".



 Erving Goffman Almeno da un ventennio a questa parte, infatti, parlare in pubblico è un'esperienza riservata a tutti; meglio: programmata per tutti. Anche senza pensare al caso tipico della 'conferenza' (o della domanda proposta a un conferenziere), che già prevede che qualcuno ti chiami, basta chiedere a un qualsiasi piccolo imprenditore per farsi spiegare che nulla gratifica il più anonimo dei lavoratori come dargli la parola davanti ai colleghi: "quindi alle cene sociali facciamo fare il discorso ogni anno a un dipendente diverso", spiegherebbe il franco direttore di produzione. E chi non ha un amico entusiasta perché il capo gli ha chiesto (proprio a lui!) di scrivere un pezzo sul giornalino di fabbrica? Oppure, al di fuopri di queste superprogrammate "forme di rappresentazione", per citare un sociologo non da salotto ma dei salotti, cioè Erving Goffman (e ora tutti a cercare sulla Garzantina per colpa dell'amico saccente), chi non ha mai parlato ad alta voce in mezzo a un gruppo di amici, chi non è salito almeno una volta sulla scena di una tavolata a ferro di cavallo?



In quei momenti la generazione ti soccorre. Ti si scopre davanti con una naturalezza disarmante. "Come avevo fatto a non pensarci prima?", ti dici. E' che dopo le prime frasi di solito alzi lo sguardo e vedi gli occhi degli altri (degli altri qualsiasi), e capisci che più o meno ti stanno dicendo "ma cosa vuoi?", "ma perché dici queste cose", "ma chi diavolo sei?", "a che titolo parli a voce alta tu, qui, in questa pizzeria?", "avrai pure un motivo per starci a raccontare tutto questo". Lì ti scopri dentro una catena di generazioni (e ti posizioni dove vuoi o puoi, sia ben chiaro, non ci sono regole). Infatti, quasi non te ne accorgi e stai già dicendo: "Del resto quelli della mia generazione...", e tutti sembrano capire; oppure: "Mica come le giovani generazioni...", e tutti stanno con te o contro di te. Forse non sai bene quale ma alla fine una generazione di riferimento te la trovi.



A Modena, per esempio, l'Equipe 84 è un asso nella manica mica da poco. Dovunque ti trovi, trovi uno che a quella generazione lì ci si iscrive subito, che si ricorda il Cantagiro o comunque che si mette volentieri prima o dopo, salta sempre fuori Vasco o il Festivalbar. Alla fine direi che le generazioni fanno simpatia, cioè creano un'atmosfera simpatica, un po' come trovarsi in compagnia in centro alle sette di sera (e qui, per rimanere in campo musicale, ma è solo un esempio, il grande maestro è Red Ronnie, una specie di teorico della generazione come categoria interpretativa e produttiva). Il vero problema, al limite, è se si comincia a parlare della "mia" generazione sotto i vent'anni.



Resta il fatto che usare le generazioni come uno strumento da compagnia, per rallegrare la serata triste o il pomeriggio statico, può essere divertente. Col tempo si può anche diventare dei discreti professionisti. Chi vi scrive quersta noticina, per esempio, si considera un discreto professionista del genere. Dopo anni di studio e di parole a vuoto, per esempio, si può usare la generazione anche come un espediente per spiazzare e lusingare. Se siete a cena con intellettuali, scegliete il nome giusto e uscitevene con una frase del genere, calcando sul "noi", il pronome magico che fa generazione: "Noi del resto siamo quelli che hanno letto Broch dopo la guerra e l'esistenzialismo...". Oppure, se si parla di computer ecc.: "Ma la nostra generazione è ancora quella che si ricorda i primi PC della Texas Instruments, il Basic studiato sui primi manuali...". Nessuno se la sentirà di estraniarsi da colossi come Broch o la Texas Instruments. Nessuno capirà più niente di quello che si dice. Sarà tutto un affastellarsi di nomi un po' a caso, da Sartre ai Vic 20, da Hofmannsthal e Joyce allo Spectrum e l'Amiga. archeologia di una generazione: lo ZX SpectrumTutta un'archeologia disperata nel tentativo di trovare un terreno solido su cui far scendere quella cazzo di generazione che vi siete inventati voi, da cui nessuno vuole rimanere fuori ma in cui nessuno sa come infilarsi. Pensate che bello, tutti fratelli per qualche ora su un pianeta che non esisterà mai, quello di chi "ha letto Broch dopo la guerra e l'esistenzialismo". Ma a questo punto il consiglio è quello di starsene buoni ad ascoltare, perché a riprendere la parola si rischiano solo figure di merda.

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