"...come documentari sulla vita in altri pianeti"

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Forse è vero, come si dice, che una cultura visiva comune segna i confini di una civiltà più di qualsiasi altro tratto sensoriale o geografico. Non le forme del gusto, non del tatto, non degli odori. Dei suoni non saprei. Diciamo che vedere cose diverse, o abituarsi a vedere diversamente, vuole spesso dire trovarsi in posti diversi. E poi la vista (o la visione) è forse il primo mattone su cui si edifica il nostro immaginario, quello sì influente sui nostri umori. (Immaginario: una parola da salvare).



Ma ora niente ragionamenti. Vorrei riportare solo un'impressione. Stasera, al quinto nocino (e avevo ancora freddo), mi sono alzato come in trance per bere dal frigo una sorsata di Coca cola. Il mio stato confusionale, un po' gastrico (sul tavolo stavano anche le bucce di sette mandarini) un po' ottico, tre ore di TV, ha avuto improvvisamente il sopravvento e mi ha fornito il pezzetto che mi mancava. Mi sono improvvisamente ricordato di quel documentario, sbirciato un annetto fa, che parlava dello sbarco di Robbie Williams negli Usa. Della fatica che aveva fatto a presentarsi al pubblico americano, di come lo trattavano da pirla nelle radio che pompavano Dolly Parton ecc.

Mi è tornato in mente che nello speciale c'era anche una lunga intervista a una qualche chief executive manager ventisettenne bionda con completo di camoscio. Era lei che raccontava come vedendo il video di non so quale hit europea di Robbie (Angels?) era rimasta inorridita dalla regia, dai costumi, dalla fotografia, dalla sceneggiatura, dal montaggio ecc. Insomma l'unica cosa importante da fare era girare un nuovo video, perché quello, in America, non l'avrebbe guardato nessuno, avrebbero tutti cambiato canale quasi senza accorgersene.



Ecco, sembra una sciocchezza ma il ricordo mi ha soccorso, perché mentre continuavo a versarmi la "crema di nocino" fatta scivolare sul tavolo a inizio sera dalla mia materna domestica, provavo anche a rendermi ragione di quello che stavo vedendo. In fondo era il solito "award" di Mtv (quello dei video), trasmesso sottotitolato nella versione statunitense, andata in onda, intuivo, a fine estate scorsa e registrato al Metropolitan di New York. Lo show era il solito, ben logoro nella struttura, ma era un'esperienza travolgente notare come non ci fosse un pixel dello schermo occupato da un'immagine riconducibile in qualche modo dentro il campo della mia visuale quotidiana. Per me quella era alla lettera una visione.



Ora non mi va di provare a esaminare le "apparenze" di quello che ho visto, la loro straordinaria carica epidermica. Ma raramente ho provato un simile spaesamento. Poche volte ho avuto la sensazione netta di stare guardando qualcosa che non era fatto per me, che era indirizzato precisamente ad altri, che non mi era vietato ma che non mi prevedeva affatto. Ai miei occhi era una specie di documento. Era, per esempio, un mondo altro di colori. C'era dietro un'idea di colore che io non ho, che, credo, qui non c'è.



Senz'altro sarà una questione di gradazioni, di vite in posti diversi, se volete di target e di passato. Ma per quanto io mi consideri uno spettatore diretto della tv americana, grazie al satellite, alla Cnn e al Late Show with David Letterman, mi sono improvvisamente trovato disperso. Qualcosa del genere potevo ricordarlo solo retrocedendo di sei anni, quando, appunto, andai a Manhattan e rimasi sopraffatto dalla loro televisione. Il primo contatto lo ebbi a 100 km orari sull'ascensore dell'Hilton, lanciato per pochi secondi in verticale ma dotato di due minischermi sintonizzati 24/24 sulle news e sul canale tematico del meteo. Il secondo contatto fu in Rockfeller plaza a vedere live gli anchormen condurre il telegiornale in uno studio fatto solo di vetrate.



Qui mi fermo, non saprei davvero che aggiungere. Domani mattina scoprirò che era solo la solita nevrosi (vi giuro che quel cremoso nocino fatto dal mio giardiniere è più potente di qualsiasi analista freudiano). Io ero senza dubbio in un momento di sensibilità particolare. Alla mattina mi ero visto due vecchi film di Fritz Lang, Il mostro di Dusseldorf e Il Dottor Mabuse. Insomma, avevo le pupille pronte a seguire qualsiasi immagine... Adesso che ci penso anche quei due vecchi capolavori avevo scelto di farli scorrere sul grande schermo digitale del salotto, e questo, per i primi secondi, mi aveva fatto uno strano effetto. In fin dei conti la cosa più stravagante è proprio questa. Che quei due film, risorti da un tempo lontanissimo grazie a una tecnologia per loro assurda e aliena, mi avevano subito aperto la porta delle loro immagini e del loro immaginario, e io mi ero ritrovato tutto dentro. Mentre quella trasmissione, chiusa nella sua casa digitale, nella sua lontana naturalezza cromatica, mi faceva stare tutto fuori.



Anch'io ringrazio dio, la mia casa discografica, i fan e il mio designer.

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