Guido Guglielmi
Questa sera alle ventuno verrà ricordato al Festival de l'Unità di Bologna, venite anche voi. Io qui, chiedendo scusa per il tema poco pop, vorrei solo darne un breve ricordo dall'esterno, da studente più che da lettore
Guido Guglielmi, come il fratello Giuseppe, sembrava proprio atterrato qui da noi da un altro mondo. A seguirlo per la strada, col suo rollio, poteva anche ricordare lo stralunato Sig. Watt di Beckett, che marcia pilotato da fili senza senso, ma in realtà Guglielmi aveva più l'ostinazione e la logica instancabile della tartaruga che presto o tardi sorpasserà il suo Achille piè veloce. Agli occhi di noi "studenti anni Novanta", un po' svagati e troppo socievoli, la sua eleganza atipica, con sigaro berretto e impermeabile, non aveva nulla di attuale, né di italiano, di contemporaneo o conosciuto. Te lo saresti visto bene in fotografia, come Roland Barthes, a fianco del riquadro verde di un PBE serie letteraria.
Per noi Guglielmi rappresentava un'altra civiltà, anzi forse un'altra epoca un altro universo, dove concetti smisurati come il "linguaggio", la "poetica", la "tecnica", la "metropoli", il "gusto", la "retorica", il "moderno", l'idea di "sistema", di "funzione", di "intellettuale", di "ermeneutica" o di "testo", erano qualcosa di sincero e di tangibile, di comunicabile. Non era per nulla facile per un ventenne appena un po' appassionato di letteratura mettersi a parlare con Guglielmi perché noi avevamo bisogno di mettere la sordina proprio a quello stesso insieme di idee. Le amavamo e le studiavamo, potevamo anche citare Brik o Trubetzkoy, ma ci facevano un po' paura, soprattutto perché usandole non si riusciva a mettere insieme più due frasi sensate senza suonare come la fotocopia di un manuale. In più con Guglielmi non era facile nemmeno cominciare la conversazione perché venivi subito colpito da un modo di parlare diverso dal tuo, e del tutto diverso anche da quello della maggior parte degli altri professori o critici o scrittori 'di nome' che capitava di incontrare, sempre pronti a rassicurarti adottando il tono cortese del quotidiano, come se parlare di una poesia fosse qualcosa da fare sempre altrove, non lì, non adesso, ma in una sezione separata e speciale, con cautela.
Noi passavamo da Wordstar a Windows e se ci usciva una frase generica o sgrammaticata non eravamo poi tanto preoccupati: non sarebbe rimasto alcun segno del vizio. Guglielmi invece, in questo simile a Raimondi, veniva dai decenni delle macchine da scrivere ed era abituato ad arrivare sulla pagina con la frase pronta, pensata già corretta e piena di intenzioni, di informazioni e di riferimenti consapevoli. Per questo alle nostre orecchie era come se la sua parola non avesse tempo da perdere e pretendesse anche da te che ne perdessi il meno possibile. Poche chiacchiere. Il suo modo di parlare ti chiedeva di stare molto calmo e di riuscire a dire in modo chiaro e breve tutto quello che dovevi. C'era il rischio di scoprirsi stupidi, anzi deboli, perché davanti avevi invece qualcuno che riusciva a parlare della "tradizione romantica", dell'"epica", del "romanzo", del "verso libero" o della "metafora" come di qualcosa di vivo e di influente, e anche di leggero, quasi che la letteratura potesse davvero cambiare la vita di qualcuno.
Il vero stupore arrivava al momento di leggere i suoi libri. Periodi brevi, anche nominali, molti punti fermi, ogni frase che riprende la precedente, un filo logico stringente, quasi assente il lessico specialistico. E pensare che a lezione tutti lo trovavano farraginoso, sconclusionato. Era l'esatto contrario. Non c'era una parola che andasse dispersa. Ognuna portava avanti il discorso. In un certo senso era un procedere spietato, inesorabile. Ci sbalestrava noi. Il problema era che Guglielmi non si perdeva troppo in introduzioni o in preamboli, tipo adesso vi dico quello che vi dirò. Parlava di letteratura, cioè dei libri scelti di volta in volta, collegandoli molto spesso alle arti figurative o, come si diceva allora, alla serie storica. Eravamo noi a perderci, a fare una fatica tremenda per ricollocare le sue parole nel nostro orizzonte, cercando di saltare da un contesto all'altro per guardare la cittadella da tutti i punti di vista contemporaneamente, come un tempo avrebbe voluto Leibniz.
Pur tanto anomala, la sua presenza aveva qualcosa di architettonico, di raffinato e soprattutto di pieno. E anche se a questo punto potrà suonare un po' paradossale, vorrei dire che qui a Italianistica la morte di Guglielmi la soffriamo molto, soprattutto sulla nostra pelle di studenti avanzati, perché adesso sappiamo che non c'è davvero quasi più nessuno con cui parlare. I discorsi di chi è rimasto sono tutti pienamente accessibili, così ben disposti nei nostri confronti che si capisce qualunque cosa dica chiunque. Al contrario, come certe frasi brevi, fluide in tutto, scritte in modo tanto chiaro da sembrare appoggiate a invisibili postulati ironici, Guglielmi era lui stesso un dono enigmatico.
Questa sera alle ventuno verrà ricordato al Festival de l'Unità di Bologna, venite anche voi. Io qui, chiedendo scusa per il tema poco pop, vorrei solo darne un breve ricordo dall'esterno, da studente più che da lettore
Guido Guglielmi, come il fratello Giuseppe, sembrava proprio atterrato qui da noi da un altro mondo. A seguirlo per la strada, col suo rollio, poteva anche ricordare lo stralunato Sig. Watt di Beckett, che marcia pilotato da fili senza senso, ma in realtà Guglielmi aveva più l'ostinazione e la logica instancabile della tartaruga che presto o tardi sorpasserà il suo Achille piè veloce. Agli occhi di noi "studenti anni Novanta", un po' svagati e troppo socievoli, la sua eleganza atipica, con sigaro berretto e impermeabile, non aveva nulla di attuale, né di italiano, di contemporaneo o conosciuto. Te lo saresti visto bene in fotografia, come Roland Barthes, a fianco del riquadro verde di un PBE serie letteraria.
Per noi Guglielmi rappresentava un'altra civiltà, anzi forse un'altra epoca un altro universo, dove concetti smisurati come il "linguaggio", la "poetica", la "tecnica", la "metropoli", il "gusto", la "retorica", il "moderno", l'idea di "sistema", di "funzione", di "intellettuale", di "ermeneutica" o di "testo", erano qualcosa di sincero e di tangibile, di comunicabile. Non era per nulla facile per un ventenne appena un po' appassionato di letteratura mettersi a parlare con Guglielmi perché noi avevamo bisogno di mettere la sordina proprio a quello stesso insieme di idee. Le amavamo e le studiavamo, potevamo anche citare Brik o Trubetzkoy, ma ci facevano un po' paura, soprattutto perché usandole non si riusciva a mettere insieme più due frasi sensate senza suonare come la fotocopia di un manuale. In più con Guglielmi non era facile nemmeno cominciare la conversazione perché venivi subito colpito da un modo di parlare diverso dal tuo, e del tutto diverso anche da quello della maggior parte degli altri professori o critici o scrittori 'di nome' che capitava di incontrare, sempre pronti a rassicurarti adottando il tono cortese del quotidiano, come se parlare di una poesia fosse qualcosa da fare sempre altrove, non lì, non adesso, ma in una sezione separata e speciale, con cautela.
Noi passavamo da Wordstar a Windows e se ci usciva una frase generica o sgrammaticata non eravamo poi tanto preoccupati: non sarebbe rimasto alcun segno del vizio. Guglielmi invece, in questo simile a Raimondi, veniva dai decenni delle macchine da scrivere ed era abituato ad arrivare sulla pagina con la frase pronta, pensata già corretta e piena di intenzioni, di informazioni e di riferimenti consapevoli. Per questo alle nostre orecchie era come se la sua parola non avesse tempo da perdere e pretendesse anche da te che ne perdessi il meno possibile. Poche chiacchiere. Il suo modo di parlare ti chiedeva di stare molto calmo e di riuscire a dire in modo chiaro e breve tutto quello che dovevi. C'era il rischio di scoprirsi stupidi, anzi deboli, perché davanti avevi invece qualcuno che riusciva a parlare della "tradizione romantica", dell'"epica", del "romanzo", del "verso libero" o della "metafora" come di qualcosa di vivo e di influente, e anche di leggero, quasi che la letteratura potesse davvero cambiare la vita di qualcuno.
Il vero stupore arrivava al momento di leggere i suoi libri. Periodi brevi, anche nominali, molti punti fermi, ogni frase che riprende la precedente, un filo logico stringente, quasi assente il lessico specialistico. E pensare che a lezione tutti lo trovavano farraginoso, sconclusionato. Era l'esatto contrario. Non c'era una parola che andasse dispersa. Ognuna portava avanti il discorso. In un certo senso era un procedere spietato, inesorabile. Ci sbalestrava noi. Il problema era che Guglielmi non si perdeva troppo in introduzioni o in preamboli, tipo adesso vi dico quello che vi dirò. Parlava di letteratura, cioè dei libri scelti di volta in volta, collegandoli molto spesso alle arti figurative o, come si diceva allora, alla serie storica. Eravamo noi a perderci, a fare una fatica tremenda per ricollocare le sue parole nel nostro orizzonte, cercando di saltare da un contesto all'altro per guardare la cittadella da tutti i punti di vista contemporaneamente, come un tempo avrebbe voluto Leibniz.
Pur tanto anomala, la sua presenza aveva qualcosa di architettonico, di raffinato e soprattutto di pieno. E anche se a questo punto potrà suonare un po' paradossale, vorrei dire che qui a Italianistica la morte di Guglielmi la soffriamo molto, soprattutto sulla nostra pelle di studenti avanzati, perché adesso sappiamo che non c'è davvero quasi più nessuno con cui parlare. I discorsi di chi è rimasto sono tutti pienamente accessibili, così ben disposti nei nostri confronti che si capisce qualunque cosa dica chiunque. Al contrario, come certe frasi brevi, fluide in tutto, scritte in modo tanto chiaro da sembrare appoggiate a invisibili postulati ironici, Guglielmi era lui stesso un dono enigmatico.
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