Musica dalla stanza accanto


Radio Dept. - ''Lesser matters''La luce è limpida sopra i boschi a valle, in questo scintillante mattino di aprile. Se mi volto verso le montagne dietro la casa, però, percepisco come un velo davanti agli occhi. E’ vapore che si alza dal ghiacciaio, è una scia di nube che scende sulle tre punte. E’ lì che siamo diretti oggi, con lo zaino, gli scarponi e un inedito su Ungaretti.



Torno on line dopo una settimana e scopro che il mio blog about music preferito ha appena fatto un post molto bello e ricco d’arguzie proprio a proposito del mio disco preferito della stagione, e forse dell’anno.

La cosa non può che farmi piacere: qualche tempo fa a me erano bastati pochi mp3 per innamorarmi dei Radio Dept. e decidere di compiere un improbabile acquisto su internet.

A sorpresa, il pacchetto Shelflife (con tanto di badges e poster extra: gentilissimi) era arrivato subito prima della nostra partenza, e mentre preparavo la valigia lo avevo copiato di corsa per tutti i ragazzi giù alla radio, sempre molto comprensivi per questi miei travolgenti innamoramenti di primavera.



Davvero “Lesser matters” conferma tutte le mie aspettative di ingenuo indie kid: melodie molto twee che sanno appoggiarsi tanto su strati di feedback (che tutti hanno subito associato ai Jesus and Mary Chain) quanto su impalpabili trame sonore che a volte fanno pensare addirittura a degli Air in versione lo-fi.



Dopo il minuto introduttivo di “Too soon” (un’apertura con descrizione d’ambiente che non dispiacerebbe agli ultimi Yuppie Flu), le bacchette di Per Blomgren battono quattro e arriva “Where the damage isn’t already done”, forse il pezzo più immediato e tirato dell’album. Qui, e ancora di più nell’eccezionale “Why won’t you talk about it”, effettivamente si possono cogliere parentele con i fratelli Reid, mentre l’irresistibile giro di chitarra, come nelle migliori occasioni, suona subito noto ma al tempo stesso nuovo. Pelle d’oca, come per ogni canzone che ti colpisce al cuore al primo ascolto.

La voce di Johan Duncanson è roca, quasi rotta dall’emozione, e potrebbe non farcela da un momento all’altro. Mi ricorda la prima volta che mi hanno fatto ascoltare i Dinosaur Jr.



Da qui in poi, a cominciare dall’attacco di “Keen on boys” (dove un sottofondo ruvido e una batteria - che vorrei dire più meccanica che elettronica - fanno da contrappunto alle voci che si inseguono e si sovrappongono) si fa strada l’idea che i Radio Dept. siano nella stanza accanto.

C’è qualcosa di continuamente sfuggente nel loro suono, di indefinito e seducente: forse il rimbombo del cantato (spesso filtrato), una struggente ossessività, una ricerca di semplicità che a volte emerge proprio dove è più spinta la saturazione.

La dolcissima “Against the tide”, ad esempio, è tenuta insieme da un beat minimo di rullante e un filo di synth quasi spaziale. Poi ti accorgi che ci sono uccelli che cinguettano, le voci raddoppiano, l’eco prende il sopravvento e alla fine arriva lo spoglio assolo di chitarra, di una malinconia da lasciare senza parole.



“Strange things will happen” (la preferita dell’IngegnIere) meriterebbe una cover da parte dei Delgados, se non altro per la grazia della voce di Elin Almered, l’amica della band che ha anche dipinto la copertina del disco.

Infine, tutte le reminiscenze di Joy Division, My Bloody Valentine e Cure emergono chiare nella sconsolata “Ewan”, dove la batteria sembra lontanissima eppure capace di aprire una danza ad ogni colpo di piatti.



“Lesser matters”: cinque stelle sul tabellino di polaroid, anche se non mi credete perché si capisce che sono troppo innamorato.

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