I don't like mondays


1)

La cosa va avanti da qualche tempo. Tutte le energie che cominciano a dileguarsi già dal lunedì mattina, e che vengono quasi completamente a mancare nei giorni tristi e feriali che seguono, all'improvviso, nel tardo venerdì pomeriggio, si ripresentano fiere a reclamare la loro parte, senza scrupoli né sensi di colpa.

A quel punto, l'unica cosa da fare appena rientrati in casa è allentare la cravatta, estrarre dal frigo la prima di una lunga serie di birre e mettere sullo stereo "Fever to tell" degli Yeah Yeah Yeahs.



Così è per me, e da qualche settimana questo disco è la colonna sonora ufficiale della prima parte dei miei weekend. Undici canzoni (dodici con quella fantasma) e trentasette minuti per fare una doccia, farsi la barba, scegliere la maglietta per il concerto, decidere che non c'è tempo per mangiare e aprire un'altra birra cantando "we're gonna go-go-go-go", un'occhiata allo specchio (con questa musica funziona sempre) e stai già volando giù per le scale.



Ecco, prendiamo proprio una delle canzoni più fragili della scaletta, la centrale Pin: quegli accordi ritmati iniziali potrebbe far pensare per un attimo ai concittadini Strokes, ma quando entra la batteria di Brian Chase, tutto il tempo sobbalza fuori centro, il motore sembra ingolfarsi, e la voce di Karen O è ancora più svogliata del solito, seppellita di sigarette, poi si agita, si impenna e la chitarra di Nick Zinner ha un sussulto, si blocca, ci ripensa e poi riparte con un poderoso rombo rotondo che riempie le casse e non può non farti saltare.

E questa è probabilmente una delle canzoni più grezze del mucchio.

Lasciamo stare l'immagine tutta sesso della band ("let's do this like a prison break", "Boy you're just a stupid bitch

and girl you're just a no good dick"), lasciamo stare tutto il consueto hype (ma chi ce l'ha più il tempo di leggere NME?): questo è un disco buono per ballare, per bere, per sentire che il sabato è ancora tutto da spendere e per sapere che quando finirò col culo sul marcipaiede potrò canticchiare "out of control" ancora per un bel po'.



2)

Poi qualcosa si sposta, la posizione della schiena non è quella corretta, c'è troppo caldo e gli occhi si socchiudono a caleidoscopio. È domenica, ora di pranzo.

Ti alzi e consideri che ormai nemmeno più il mal di testa è quello apocalittico di una volta.

Cerchi con una mano la bottiglia dell'acqua e con l'altra il telecomando dello stereo, perché sai che "Days before the days" degli Yuppie Flu è quello che ci vuole per svegliarsi, piano ma deciso, in una domenica di primavera del 2003.



C'è il sole e c'è l'ombra fresca in queste canzoni (dove spesso soffia una brezza di archi), c'è un passo quieto anche nei momenti più ritmati (che, per la verità, sembrano meno di quanti non siano) e c'è il sorriso leggero che ogni domenica dovrebbe avere.

Il vestito buono della domenica in "Days before the days" è cucito con i riferimenti raffinati che più o meno tutti hanno colto nella scrittura di questi ultimi Yuppie Flu: i dEUS (Food for the ants, Female scientist), i Notwist (Eyes of dazzling bright), i Mercury Rev e i Flaming Lips (All that shines, Now and on).

D'accordo, manca un pezzo sinceramente tirato come Order the player off the field (uno dei migliori brani di indie rock mai sentiti in Italia) che si stagliava al centro del precedente "The boat e.p.", e forse anche per questo la somma dell'album suona un po' meno scorrevole di quanto non ci si aspetterebbe dati i singoli fattori.

Ma "Days before the days" è una domenica pomeriggio che mette ordine tra le cose, è la primavera incantata degli Yuppie Flu, e con calma tutti i dettagli ritornano al posto e al tempo giusto.



3)

Se all'ora di cena non mi hai ancora chiamato divento malinconico e mi arrendo al pensiero che una nuova settimana sta per cominciare.

Mentre c'è ancora luce faccio partire "Naturaliste" dei Lucksmiths e mi fermo davanti alla finestra aperta, ma poi ho freddo e vado a prendere una felpa. Sullo schermo del computer c'è un foglio bianco di Notepad.

Questo quinto sorprendente album del trio australiano è un po' così, la musica del pomeriggio che svanisce (Take this lying down, The perfect crime), del tempo perduto di tutta questa nostra adolescenza (Midweek Midmorning), di certe parole che passano attraverso il silenzio, di luoghi che ci sono familiari ma che si allontanano. Non me lo aspettavo.

Provo a immaginare un paio di battute che potrebbero farti ridere (Camera shy, There Is A Boy That Never Goes Out), ma in fondo non ci credo neppure io, e mi tornano in mente i più tristi bar dove siamo stati lontani (Stayaway stars).



Non conta vedere quanto sono migliorati i già eccezionali Lucksmiths, non basta constatare che nomi quali Smiths, Housemartins e Belle & Sebastian ora non valgono soltanto come riferimento, ma come misura di paragone. I Lucksmiths rimangono quelli che preferiscono ricevere lettere di carta scritte a penna, quelli che preferiscono il ventesimo secolo, quelli che preferiscono non essere ricordati con una polaroid. Non ascoltate "Naturaliste" la domenica sera. È così bello che si sta un po' male.

Commenti