We are free, but is she?


Nelle considerazioni che si facevano a luci accese si percepiva un po' di sgomento. Chi sapeva a cosa andava incontro non era uscito dal concerto di Cat Power meno stravolto di chi era giunto solamente attirato dai servizi delle riviste femminili.

La sensazione era che, nonostante l'attesa e il lungo travaglio, al termine della rappresentazione mancasse ancora qualcosa.

Io non sapevo cosa rispondere, sorridevo e la guardavo ballare scomposta sulla pista (il Modest metteva i dischi e chissà se si rendeva conto), pestando gli stivaletti da motociclista, mentre chiunque la voleva abbraciare e la pantomima si faceva quasi oscena.



Eppure i rari brividi veri provati in mezzo a tutto il resto bastavano a farmi riconsiderare la faticosissima serata come qualcosa di difficilmente dimenticabile (anche se forse per qualcuno non bastavano a ripagare il salato biglietto).

Dopo l'inizio quasi canonico con i pezzi del nuovo album e l'intermezzo interminabile al pianoforte spalle al pubblico ("turn that fucking light off!"), quando ormai temevamo d'averla persa, c'è stato il momento in cui è rientrata la band e hanno suonato una tirata Dead leaves dei White Stripes, e poi una irriconoscibile Knockin' on heaven's door, per poi sfociare in una Charlene lunghissima e sexy (con tanto di caldi duetti con le prime file), rotolata per terra e scagliata per aria e dimenticata dietro i pugni che nascondevano il viso. E poi il violento bis (che forse era Rockets) in ginocchio abbracciata senza memoria alla simil-Nico canadese June Serwa.



Chan Marshall sul palco mi è apparsa così, capelli continuamente tirati sugli occhi come a calare il sipario e però canzoni per spogliarsi di tutto, anche dell'innocenza.

Il concerto che ho intravisto ti voleva a lungo paziente, ti girava intorno, ti abbandonava, ti chiedeva di spegnere le luci e poi scatenava l'amore.

Non poteva essere perfetto, andava troppo oltre la sincerità e la recita.

E sembravano soltanto canzoni.

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