Postamericana: prima del grande freddo
“E’ bello avere intorno persone a cui non devi spiegare le battute”. Liofilizzato nell’osservazione di una delle sue protagoniste, ecco il senso profondo del film di John Sayles che verrà proiettato questa sera all’Ex Mercato di via Fioravanti 24.
Return of the Secaucus Seven racconta di un gruppo di vecchi amici, compagni d’università ai tempi del Sessantotto, che dieci anni dopo s’incontrano per un weekend. Le loro vite hanno preso strade diverse, com’è naturale, ma bastano due giorni per accorgersi di continuare a far parte di una comunità con un suo codice e un suo linguaggio. In cui, per l’appunto, ci si capisce al volo.
E quasi non ci credono, i sette di Secaucus, perché di solito là fuori non riescono a dire quello che sentono, non riescono ad esprimere le loro emozioni. Hanno slanci, si fermano, ripartono, si bloccano di nuovo. Il loro modo di parlare è frammentato come il mosaico di storie alternate che compongono questo e tanti altri film di Sayles, “da oltre vent’anni il cantore di un’America contraddittoria, corrotta ma insieme morale, fasulla ma desiderosa di riscatto. (...) Un regista che, a 53 anni, resta il più autentico degli indipendenti americani, uno di quei cineasti che non hanno fatto scuola, che non si sono rassegnati alla mediocrità e alle interferenze, che non sono andati in pellegrinaggio al Sundance per vendere i loro progetti alle majors” (così scrive Emanuela Martini sul numero di Film Tv in edicola questa settimana).
Un autore che si inserisce alla perfezione in una rassegna come Postamericana, che prova a descrivere l’ambivalenza del sogno a stelle e strisce.
Regista, sceneggiatore, attore, montatore e anche produttore dei suoi film, Sayles ha sempre raccontato con grande empatia le piccole battaglie quotidiane dei suoi personaggi. E gli scarsi mezzi economici che ha spesso avuto a disposizione (il che ha significato: pochi ambienti, semplicità delle inquadrature e grande attenzione ai dialoghi) non hanno fatto che contribuire a rafforzare la sensazione di autenticità di queste battaglie.
Proprio come accade in Return of the Secaucus Seven, un film che molti ritengono abbia ispirato Lawrence Kasdan per realizzare Il grande freddo. Peccato quindi per i suoi sottotitoli in italiano, che più di una volta rendono in modo approssimativo le battute originali. Peccato anche per le condizioni della pellicola, che dopo 23 anni ha visto quasi tutti i colori stingersi in un’uniforme tonalità magenta. Ma questo sembra essere il destino di molti film degli scorsi decenni, se è vero che è toccato anche agli altri già programmati, Chappaqua e Lontano dal Vietnam.
Proiettare in video sarebbe più semplice, certo. Ma nessuna moltiplicazione di pixel potrà mai ricreare l’immagine intensiva della riproduzione fotochimica. E il tentativo di aprire un cinema all’interno di un centro sociale come l’Ex Mercato 24 (ora all’aperto, sotto la tettoia, poi al chiuso) ha come obiettivo anche quello di riciclare pellicole che presto saranno solo cimeli ammassati dentro locali inaccessibili.
La precarietà, le sedie sgangherate e gli impianti autocostruiti esprimono il carattere originario del cinema, che gli ha consentito di presentarsi, all’indomani della guerra, nelle arene estive ricavate nei luoghi distrutti dalle bombe. E che ora gli consente di presentarsi in uno spazio progettato per ospitare frutta e verdura.
Sergio Palladini
“E’ bello avere intorno persone a cui non devi spiegare le battute”. Liofilizzato nell’osservazione di una delle sue protagoniste, ecco il senso profondo del film di John Sayles che verrà proiettato questa sera all’Ex Mercato di via Fioravanti 24.
Return of the Secaucus Seven racconta di un gruppo di vecchi amici, compagni d’università ai tempi del Sessantotto, che dieci anni dopo s’incontrano per un weekend. Le loro vite hanno preso strade diverse, com’è naturale, ma bastano due giorni per accorgersi di continuare a far parte di una comunità con un suo codice e un suo linguaggio. In cui, per l’appunto, ci si capisce al volo.
E quasi non ci credono, i sette di Secaucus, perché di solito là fuori non riescono a dire quello che sentono, non riescono ad esprimere le loro emozioni. Hanno slanci, si fermano, ripartono, si bloccano di nuovo. Il loro modo di parlare è frammentato come il mosaico di storie alternate che compongono questo e tanti altri film di Sayles, “da oltre vent’anni il cantore di un’America contraddittoria, corrotta ma insieme morale, fasulla ma desiderosa di riscatto. (...) Un regista che, a 53 anni, resta il più autentico degli indipendenti americani, uno di quei cineasti che non hanno fatto scuola, che non si sono rassegnati alla mediocrità e alle interferenze, che non sono andati in pellegrinaggio al Sundance per vendere i loro progetti alle majors” (così scrive Emanuela Martini sul numero di Film Tv in edicola questa settimana).
Un autore che si inserisce alla perfezione in una rassegna come Postamericana, che prova a descrivere l’ambivalenza del sogno a stelle e strisce.
Regista, sceneggiatore, attore, montatore e anche produttore dei suoi film, Sayles ha sempre raccontato con grande empatia le piccole battaglie quotidiane dei suoi personaggi. E gli scarsi mezzi economici che ha spesso avuto a disposizione (il che ha significato: pochi ambienti, semplicità delle inquadrature e grande attenzione ai dialoghi) non hanno fatto che contribuire a rafforzare la sensazione di autenticità di queste battaglie.
Proprio come accade in Return of the Secaucus Seven, un film che molti ritengono abbia ispirato Lawrence Kasdan per realizzare Il grande freddo. Peccato quindi per i suoi sottotitoli in italiano, che più di una volta rendono in modo approssimativo le battute originali. Peccato anche per le condizioni della pellicola, che dopo 23 anni ha visto quasi tutti i colori stingersi in un’uniforme tonalità magenta. Ma questo sembra essere il destino di molti film degli scorsi decenni, se è vero che è toccato anche agli altri già programmati, Chappaqua e Lontano dal Vietnam.
Proiettare in video sarebbe più semplice, certo. Ma nessuna moltiplicazione di pixel potrà mai ricreare l’immagine intensiva della riproduzione fotochimica. E il tentativo di aprire un cinema all’interno di un centro sociale come l’Ex Mercato 24 (ora all’aperto, sotto la tettoia, poi al chiuso) ha come obiettivo anche quello di riciclare pellicole che presto saranno solo cimeli ammassati dentro locali inaccessibili.
La precarietà, le sedie sgangherate e gli impianti autocostruiti esprimono il carattere originario del cinema, che gli ha consentito di presentarsi, all’indomani della guerra, nelle arene estive ricavate nei luoghi distrutti dalle bombe. E che ora gli consente di presentarsi in uno spazio progettato per ospitare frutta e verdura.
Sergio Palladini
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