Un gelato con Joe Pernice


Pernice Brithers 'Yours, mine & ours'Dopopranzo mi lasciavano uscire da solo a comperare i gelati per tutti. Cento metri di strada che i miei nonni, sotto il sole delle due, non avevano voglia di fare. Dopo qualche volta, avevo raccontato che i coni costavano di più. Con i soldi di quattro gelati mi avanzano duecento lire e le spendevo ai videogiochi nella stanza sul retro del bar, tra le casse verdi delle bottiglie e la cabina della Sip.

A Galaga ero negato e non andavo oltre il secondo challenging stage. Le partite finivano in un attimo e tornavo a casa in fretta con il sacchetto freddo in mano. Poi sedevo nella sala con le tapparelle abbassate a mangiare quel gelato che non gustavo mai.

Non ricordo a cosa pensavo: forse ai miei compagni di scuola che abitavano in paese e che passavano i giorni delle vacanze in sala giochi, forse mi sentivo in colpa per aver mentito e rubato, forse ero un bambino a cui non piacevano i gelati.



Credo che da allora, qualunque canzone capace di restituirmi quella sensazione di desolata sospensione del tempo, di assolata distanza e di immotivata nostalgia senza un vero oggetto, diventi ogni volta un po' una mia "canzone dell'estate" (qualcosa oltre il divertimento dei tormentoni di stagione, qualcosa che puoi legare alla memoria e percepire ancora quando stringi tra le dita una vecchia polaroid).

Mi ero portato in vacanza Yours, mine & ours dei Pernice Brothers senza averlo ancora ascoltato bene, sulla fiducia. Ovviamente, la voce di Joe Pernice che svanisce sul verso "there's a radio to play" in One foot in the grave (e quel paio di battute centrali vuote e tese che mi richiamano alla mente, non so perché, i Bedhead) è finita per diventare il mio personale marchio sonoro di questo viaggio.



Yours, mine & ours è un disco di una classicità disarmante. E' Pop, ma non ha nulla di semplice, scontato o ingenuo. Ogni dettaglio era già lì, e l'immagine (che in in qualche modo conoscevamo da sempre) è del tutto fuori dal tempo.

Certo, si riconoscono i pegni d'amore: in Sometimes I remember, ad esempio, c'è tanto dei New Order (e qualcosa dei Cure), ma non suona come un revival new wave. Quel "would you please, would you please, would please" ripetuto in Judy è così morrisseyano che sono corso a riascoltare tutto Vauxall and I per vedere da dove venisse; eppure degli Smiths c'è più "quello che ti rimane" dopo una canzone che qualche somiglianza in senso stretto. E profusa ovunque, senza mai riuscire stucchevole, un'idea forte di melodie byrdsiane (soprattuto quando Joe Pernice raddoppia con grazia la propria voce).

Ecco, a volte puoi pensare che in Yours, mine & ours siano contenute idee platoniche di canzoni pop, quello che le canzoni di questo mondo e di questo tempo non riescono quasi mai a essere. E lì, dove "there's a radio to play" tutti i ricordi di tutte le estati trovano finalmente pace.





ps: non sarebbe bello un giorno ascoltare una cover di Waiting for the universe fatta dai Grandaddy, e una versione di How to live alone dai Perturbazione?

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