Antinomia e Analogia
Cresci in un’epoca dalle comodità decisamente faticose e discutibili ma spesso utili, tipo certe apocalittiche contrapposizioni: Commerciale / Alternativo, Colto / Di Destra, o Razza Umana / Pianeta Terra.
Una di queste, su cui fondi le tue congetture e i tuoi sporadici ragionamenti, è quella di Digitale / Analogico.
A un tratto ti imbatti in un disco degli American Analog Set.
E’ l’estate del 2003 e il quintetto texano ha appena pubblicato il suo quinto album. Più o meno lo stesso cinque volte, scrivono autorevoli maligni, incapaci di udire nella reiterazione altro suono se non l’identico ripetuto (e non, anche, il tempo aggiunto dal ricordo del precedente).
Fatto sta che le prime volte Promise of love ti entrava in un orecchio e subito l’altra mano correva a saltare le tracce. Continui a ritenere Continuous hit music un inizio piuttosto balordo per una band che non ci tiene tanto a essere avvicinata agli Stereolab.
Però, la prima volta che riesci a resistere a tre minuti di una singola nota, qualcosa verso il centonovantesimo secondo si apre, si illumina brevemente, si apre, si illumina brevemente, si apre, si illumina brevemente, rallenta, rallenta e si spegne. Sei perplesso.
La voce del biologo molecolare Andrew Kenny sembra andare dietro alle parole senza molta convinzione anche nel secondo brano, maggiormente indirizzato verso qualcosa che potremmo definire pop (cioè: io metto lì tutto quello che serve a fare una canzone, voi fatevi un’idea).
Quello che Hard to find e la successiva Come home Baby Julie, come home (senza dubbio la canzone migliore del disco) hanno in comune è l’uso del tutto informale del metronomo.
Però l’andamento sballato in un paio di momenti fa sembrare tutta questa cosa del tempo e della reiterazione ancora più gradevole: ti sembra di sentire che a loro “sta piacendo” suonare così. E ciò è bello. Ci sono un sacco di dlin dlin morbidi morbidi come di xilofono, mentre un’accelerazione, forse, ecco, sì, no, poi ritorna tutto come prima.
Stai bene: finisce: piano elettrico: sfuma? No, riparte, con l’organo di Lisa Roschmann più in evidenza. Pensi a un sacco di cose intanto che tutto va così a meraviglia. Anche, di passaggio, se riuscirai mai a metterla in radio.
Ah, è finita davvero, peccato.
L’innocua You own me sarebbe il pezzo più indie rock degli Air, mentre la canzone che dà il titolo all’album sopraggiunge totalmente inattesa e ti sveglia di soprassalto (la sola traccia sotto i quattro minuti). C’è questa specie di Death Cab for Cutie senza melodia e un riff pestato, non si sa come prenderla: c’è un poco di rabbia e non mi pare che si intoni al resto del guardaroba degli AAS, ma l’effetto è raggiunto.
The Hatist resta tra Ben Gibbard e il Micheal Jackson di “Billy Jean”: con un passo ballabile, si diverte a inserire scatti moderatamente sincopati, nonché un’unica nota di organo in crescendo (a questo punto cominci a pensare che non siano dotati di tastiera polifonica, e ogni volta si trovino costretti a sovraincidere le terze e le quinte degli accordi, per non parlare delle settime).
Fool Around vanta la melodia più mossa del disco, e l’interpretazione vocale più appassionata (se così si può dire). Pezzo semplice, veloce, buono da nastrone per la radio. Verso il (lontano) finale accelera un po’.
La traccia conclusiva, Modern drummer appartiene al genere “brani lenti con violoncello e voce sussurrata”. Molto “intensi”. Buoni per chiudere le playlist. Una pausa. Tutto si sospende. Ricomincia. Dicevo:brano lento con violoncello e voce sussurrata, molto intenso, sei note di xilofono e pennate di chitarre evanescenti. Seconda pausa, più lunga. Fruscio come di puntina a fine giradischi. Fine dell’album.
Segue ghost track: una versione acustica e molto sporca della seconda parte del brano d’apertura, che suona decisamente interessante ma purtroppo molto breve.
Poi, dopo quaranta minuti così, si può anche ascoltare Andrew Kenny sostenere che oggi analogico vuol dire studi di registrazione a 24 piste, mentre il vero “homemade” ormai è digitale ed è portato avanti dalle band che suonano nella cameretta. E lui, nonostante tutto, si sente ancora dalla parte degli “homemade”.
Cresci in un’epoca dalle comodità decisamente faticose e discutibili ma spesso utili, tipo certe apocalittiche contrapposizioni: Commerciale / Alternativo, Colto / Di Destra, o Razza Umana / Pianeta Terra.
Una di queste, su cui fondi le tue congetture e i tuoi sporadici ragionamenti, è quella di Digitale / Analogico.
A un tratto ti imbatti in un disco degli American Analog Set.
E’ l’estate del 2003 e il quintetto texano ha appena pubblicato il suo quinto album. Più o meno lo stesso cinque volte, scrivono autorevoli maligni, incapaci di udire nella reiterazione altro suono se non l’identico ripetuto (e non, anche, il tempo aggiunto dal ricordo del precedente).
Fatto sta che le prime volte Promise of love ti entrava in un orecchio e subito l’altra mano correva a saltare le tracce. Continui a ritenere Continuous hit music un inizio piuttosto balordo per una band che non ci tiene tanto a essere avvicinata agli Stereolab.
Però, la prima volta che riesci a resistere a tre minuti di una singola nota, qualcosa verso il centonovantesimo secondo si apre, si illumina brevemente, si apre, si illumina brevemente, si apre, si illumina brevemente, rallenta, rallenta e si spegne. Sei perplesso.
La voce del biologo molecolare Andrew Kenny sembra andare dietro alle parole senza molta convinzione anche nel secondo brano, maggiormente indirizzato verso qualcosa che potremmo definire pop (cioè: io metto lì tutto quello che serve a fare una canzone, voi fatevi un’idea).
Quello che Hard to find e la successiva Come home Baby Julie, come home (senza dubbio la canzone migliore del disco) hanno in comune è l’uso del tutto informale del metronomo.
Però l’andamento sballato in un paio di momenti fa sembrare tutta questa cosa del tempo e della reiterazione ancora più gradevole: ti sembra di sentire che a loro “sta piacendo” suonare così. E ciò è bello. Ci sono un sacco di dlin dlin morbidi morbidi come di xilofono, mentre un’accelerazione, forse, ecco, sì, no, poi ritorna tutto come prima.
Stai bene: finisce: piano elettrico: sfuma? No, riparte, con l’organo di Lisa Roschmann più in evidenza. Pensi a un sacco di cose intanto che tutto va così a meraviglia. Anche, di passaggio, se riuscirai mai a metterla in radio.
Ah, è finita davvero, peccato.
L’innocua You own me sarebbe il pezzo più indie rock degli Air, mentre la canzone che dà il titolo all’album sopraggiunge totalmente inattesa e ti sveglia di soprassalto (la sola traccia sotto i quattro minuti). C’è questa specie di Death Cab for Cutie senza melodia e un riff pestato, non si sa come prenderla: c’è un poco di rabbia e non mi pare che si intoni al resto del guardaroba degli AAS, ma l’effetto è raggiunto.
The Hatist resta tra Ben Gibbard e il Micheal Jackson di “Billy Jean”: con un passo ballabile, si diverte a inserire scatti moderatamente sincopati, nonché un’unica nota di organo in crescendo (a questo punto cominci a pensare che non siano dotati di tastiera polifonica, e ogni volta si trovino costretti a sovraincidere le terze e le quinte degli accordi, per non parlare delle settime).
Fool Around vanta la melodia più mossa del disco, e l’interpretazione vocale più appassionata (se così si può dire). Pezzo semplice, veloce, buono da nastrone per la radio. Verso il (lontano) finale accelera un po’.
La traccia conclusiva, Modern drummer appartiene al genere “brani lenti con violoncello e voce sussurrata”. Molto “intensi”. Buoni per chiudere le playlist. Una pausa. Tutto si sospende. Ricomincia. Dicevo:brano lento con violoncello e voce sussurrata, molto intenso, sei note di xilofono e pennate di chitarre evanescenti. Seconda pausa, più lunga. Fruscio come di puntina a fine giradischi. Fine dell’album.
Segue ghost track: una versione acustica e molto sporca della seconda parte del brano d’apertura, che suona decisamente interessante ma purtroppo molto breve.
Poi, dopo quaranta minuti così, si può anche ascoltare Andrew Kenny sostenere che oggi analogico vuol dire studi di registrazione a 24 piste, mentre il vero “homemade” ormai è digitale ed è portato avanti dalle band che suonano nella cameretta. E lui, nonostante tutto, si sente ancora dalla parte degli “homemade”.
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