Thank you for the music (13)
Una polaroid di musica in nice price
Così la notizia è certa: i Pixies esisteranno di nuovo, e verranno in Europa per sei settimane all’inizio dell’estate. Al momento l’unica data confermata sembrano essere quelle inglesi e quella al Primavera Sound di Barcellona, mentre paiono sfumate le speranze di vederli a Ferrara.
E così finalmente, forse, io potrò riprendermi dallo shock di una dozzina d’anni fa, quando cominciai ad ascoltare musica praticamente grazie a loro, per poi accorgermi il giorno dopo che si erano appena sciolti.
Ricordo perfettamente quel gesto, girare la manopola dell’autoradio di una macchina non mia una notte, dire zitti a tutti, tendere l’orecchio per cercare di decifrare quel suono incredibilmente nuovo, e chiedermi cosa diavolo stesse facendo quella canzone.
Prima di me, la stessa cosa era successa a una generazione intera di ragazzi americani (tra gli atri, Kurt Cobain), e fu anche grazie a loro se la parola “alternative” emerse per definire un “genere” musicale.
In una manciata di anni, dall’86 al 92, i Pixies produssero 5 album senza sbagliare quasi nulla, riuscendo a passare dagli squarci di Surfer Rosa (metallico, luminoso e frastornante) ai più coerenti paesaggi del pur energico Trompe Le Monde.
Quello che avevo sentito io, era esattamente quello che i Pixies avevano fatto al mondo qualche anno prima: qualcosa di sconosciuto si faceva strada nelle tue orecchie, scendeva lungo la schiena, e mentre tu non smettevi di saltare continuava a urlarti I am un chien andalou.
Il vertice della loro produzione rimane senza dubbio Doolittle, disco del 1989 capace di tenere insieme in quaranta minuti spensieratezze pop (Here comes your man) e ossessioni di morte (Dead, Mr. Grieves, I Bleed), omaggi al surrealismo (Debaser) e strabilianti stravolgimenti di canzoni d’amore (Hey).
Grazie anche alle liriche del criptico Frank Black, in Doolittle ci sta tutto: oscurità e luce, salvezza e dannazione, sensualità e violenza. Ma tra grida e sussurri, i Pixies sembravano in grado di trattare ogni cosa con la stessa facilità, vuoi per la leggerezza che Kim Deal infondeva appena la sua voce si affacciava, vuoi per il modo selvaggio con cui Joey Santiago faceva a pezzi il rituale degli assoli di chitarra, vuoi per il tenace lavoro di batteria dell’incrollabile David Lovering.
Resta l’impressione che i Pixies all’epoca non furono così fortunati o abili da raccoglierne tutti i frutti. In bocca al lupo per la seconda chance.
Una polaroid di musica in nice price
Così la notizia è certa: i Pixies esisteranno di nuovo, e verranno in Europa per sei settimane all’inizio dell’estate. Al momento l’unica data confermata sembrano essere quelle inglesi e quella al Primavera Sound di Barcellona, mentre paiono sfumate le speranze di vederli a Ferrara.
E così finalmente, forse, io potrò riprendermi dallo shock di una dozzina d’anni fa, quando cominciai ad ascoltare musica praticamente grazie a loro, per poi accorgermi il giorno dopo che si erano appena sciolti.
Ricordo perfettamente quel gesto, girare la manopola dell’autoradio di una macchina non mia una notte, dire zitti a tutti, tendere l’orecchio per cercare di decifrare quel suono incredibilmente nuovo, e chiedermi cosa diavolo stesse facendo quella canzone.
Prima di me, la stessa cosa era successa a una generazione intera di ragazzi americani (tra gli atri, Kurt Cobain), e fu anche grazie a loro se la parola “alternative” emerse per definire un “genere” musicale.
In una manciata di anni, dall’86 al 92, i Pixies produssero 5 album senza sbagliare quasi nulla, riuscendo a passare dagli squarci di Surfer Rosa (metallico, luminoso e frastornante) ai più coerenti paesaggi del pur energico Trompe Le Monde.
Quello che avevo sentito io, era esattamente quello che i Pixies avevano fatto al mondo qualche anno prima: qualcosa di sconosciuto si faceva strada nelle tue orecchie, scendeva lungo la schiena, e mentre tu non smettevi di saltare continuava a urlarti I am un chien andalou.
Il vertice della loro produzione rimane senza dubbio Doolittle, disco del 1989 capace di tenere insieme in quaranta minuti spensieratezze pop (Here comes your man) e ossessioni di morte (Dead, Mr. Grieves, I Bleed), omaggi al surrealismo (Debaser) e strabilianti stravolgimenti di canzoni d’amore (Hey).
Grazie anche alle liriche del criptico Frank Black, in Doolittle ci sta tutto: oscurità e luce, salvezza e dannazione, sensualità e violenza. Ma tra grida e sussurri, i Pixies sembravano in grado di trattare ogni cosa con la stessa facilità, vuoi per la leggerezza che Kim Deal infondeva appena la sua voce si affacciava, vuoi per il modo selvaggio con cui Joey Santiago faceva a pezzi il rituale degli assoli di chitarra, vuoi per il tenace lavoro di batteria dell’incrollabile David Lovering.
Resta l’impressione che i Pixies all’epoca non furono così fortunati o abili da raccoglierne tutti i frutti. In bocca al lupo per la seconda chance.
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