Thank you for the music (15)
Una polaroid di musica in nice price
Quando Brian Wilson compose Pet Sounds, il resto dei Beach Boys era in giro da mesi a tenere concerti e a sorridere di California per il miglior 1966 che l’umanità avesse mai visto. Hey gente, siamo i ragazzi della spiaggia!
Un attimo prima di sprofondare nelle contraddizioni del Vietnam e della contestazione, sembrava letteralmente necessario costruire la musica perfetta, che potesse parlare a tutto il mondo e cambiarlo.
Probabilmente nella testa di Wilson queste cose erano chiare, in un certo senso: glielo dicevano i dischi dei Beatles e di Phil Spector, le sostanze che stava scoprendo rinchiuso nella sua casa-studio di Bel Air e la processione di dottori e santoni che entravano e uscivano passando dal prato dietro la piscina.
Immagino che per Wilson e il resto del gruppo non dovesse essere facile incontrarsi di nuovo: al ritorno da un lungo viaggio i giovani uomini abbronzati, e perennemente in viaggio il corpulento ragazzo silenzioso.
Soprattutto, cerco di immaginare come Wilson facesse ascoltare agli altri la musica che lui stava mettendo a punto con i migliori session-men di Los Angeles, e su cui i Beach Boys in pratica avrebbero messo solo la voce (non che fosse cosa da poco) e la faccia.
Io mi chiedo cosa facevano: si sedevano tutti assieme nella stanza? Andavano in sala di registrazione? Avevano le cuffie oppure alzavano il volume? E come era quel silenzio alla fine di ogni canzone? Oppure parlavano tutto il tempo?
Pare che i Beach Boys fossero preoccupati principalmente di quanto l’incanto che avevano creato per il loro pubblico potesse venire turbato da composizioni troppo intellettuali. E pare che Brian Wilson fosse sempre più frustrato per come le sue idee musicali si traducevano nella realtà, e diventasse esigente fino alla nevrosi.
Si può dire che entrambi peccarono di ottimismo: la band perché credeva di poter perpetuare all’infinito quell’immagine, per così dire, da Happy Days e il relativo riflesso commerciale; mentre l’utopia di Wilson finirà per rivelarsi troppo “solare” per aderire alla curva dei tempi.
Prima che le cose esplodessero (definitivamente?) inseguendo la realizzazione di Smile, i Beach Boys già molto in alto toccarono il cielo della musica e lo colorarono con Pet Sounds, un album praticamente perfetto, che affascinò e influenzò generazioni di musicisti e ascoltatori. C’è qualcosa nel suo essere classico che trascende le singole hit come Wouldn’t it be nice o God only knows. Forse è proprio in quel tentativo di Brian Wilson di creare pop senza tempo, pur essendo un magnifico prodotto del suo tempo.
Mi lega a Pet Sounds la sensazione struggente che deriva dall’impossibilità di condividere fino in fondo quello che la musica ci fa sentire.
Una polaroid di musica in nice price
Quando Brian Wilson compose Pet Sounds, il resto dei Beach Boys era in giro da mesi a tenere concerti e a sorridere di California per il miglior 1966 che l’umanità avesse mai visto. Hey gente, siamo i ragazzi della spiaggia!
Un attimo prima di sprofondare nelle contraddizioni del Vietnam e della contestazione, sembrava letteralmente necessario costruire la musica perfetta, che potesse parlare a tutto il mondo e cambiarlo.
Probabilmente nella testa di Wilson queste cose erano chiare, in un certo senso: glielo dicevano i dischi dei Beatles e di Phil Spector, le sostanze che stava scoprendo rinchiuso nella sua casa-studio di Bel Air e la processione di dottori e santoni che entravano e uscivano passando dal prato dietro la piscina.
Immagino che per Wilson e il resto del gruppo non dovesse essere facile incontrarsi di nuovo: al ritorno da un lungo viaggio i giovani uomini abbronzati, e perennemente in viaggio il corpulento ragazzo silenzioso.
Soprattutto, cerco di immaginare come Wilson facesse ascoltare agli altri la musica che lui stava mettendo a punto con i migliori session-men di Los Angeles, e su cui i Beach Boys in pratica avrebbero messo solo la voce (non che fosse cosa da poco) e la faccia.
Io mi chiedo cosa facevano: si sedevano tutti assieme nella stanza? Andavano in sala di registrazione? Avevano le cuffie oppure alzavano il volume? E come era quel silenzio alla fine di ogni canzone? Oppure parlavano tutto il tempo?
Pare che i Beach Boys fossero preoccupati principalmente di quanto l’incanto che avevano creato per il loro pubblico potesse venire turbato da composizioni troppo intellettuali. E pare che Brian Wilson fosse sempre più frustrato per come le sue idee musicali si traducevano nella realtà, e diventasse esigente fino alla nevrosi.
Si può dire che entrambi peccarono di ottimismo: la band perché credeva di poter perpetuare all’infinito quell’immagine, per così dire, da Happy Days e il relativo riflesso commerciale; mentre l’utopia di Wilson finirà per rivelarsi troppo “solare” per aderire alla curva dei tempi.
Prima che le cose esplodessero (definitivamente?) inseguendo la realizzazione di Smile, i Beach Boys già molto in alto toccarono il cielo della musica e lo colorarono con Pet Sounds, un album praticamente perfetto, che affascinò e influenzò generazioni di musicisti e ascoltatori. C’è qualcosa nel suo essere classico che trascende le singole hit come Wouldn’t it be nice o God only knows. Forse è proprio in quel tentativo di Brian Wilson di creare pop senza tempo, pur essendo un magnifico prodotto del suo tempo.
Mi lega a Pet Sounds la sensazione struggente che deriva dall’impossibilità di condividere fino in fondo quello che la musica ci fa sentire.
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