The suburbs are on fire


Sarà pigrizia, ma dopo aver cominciato a scrivere un post due o tre volte, devo ammettere di non avere nessuna voglia di provare a dire anch'io la mia sul nuovo album degli Arcade Fire. Abbiamo già letto commenti e recensioni ovunque. Inutile che ci giri intorno: Suburbs è un ottimo disco, meticoloso e consapevole, ma è improbabile che mi cambierà la vita. E questo non è certo un suo difetto o un problema della band canadese. In un certo senso, è come se gli Arcade Fire fossero ormai diventati una bellissima montagna, con cime spettacolari e rocce che restituiscono colori mozzafiato a tutte le ore, ma che domina troppo dall'alto il traffico del mio piccolo paese. Di quando in quando ci godiamo il tramonto, e certe albe commuovono sempre, ma nessuno resta tutto il giorno fermo lì davanti.
Quello che però volevo dire è che Suburbs ha provacato alcuni interessanti pezzi di scrittura musicale, come solo pochi dischi davvero importanti riescono a fare ogni anno. In parte sono dovuti alle canzoni e al concept di questo disco (per quanto meno apocalittico del solito), in parte dovuti al numero uno in classifica conquistato la settimana della sua uscita.
Prendiamola larga. Tom Ewing segnala un formidabile articolo di Helena Fitzgerald su The New Inquiry che, senza nulla togliere al valore musicale dell'album, riflette intorno a dove sia finita l'idea di Rock come ribellione nell'epoca dell'indie rock ormai adulto, proprio partendo dall'elegia della provincia cantata in Suburbs:
Rock music no longer puts us in the car, turns the ignition and sets us driving, free from Dad. Now rock music brings us back to Dad and eventually turns us into Dad.
Ewing commenta distinguendo adulto e maturo, ma il suo discorso per una volta mi pare un po' inconsistente, mettendo in mezzo argomenti personali per dargli qualche appiglio.
Nitsuh Abebe racconta in maniera dettagliata come l'evoluzione del suono degli Arcade Fire sia stata per lui inattesa, e ora la band gli sembri in qualche modo più "lontana":
The difference, I think, lies in what they mean. Because taking a path that involves shooting for the grand earnest statement, preaching to the kids, will lead you very different than a path that involves acting something out for them — acting out something possibly a little odd and perverse, something malleable, something that confronts reality by reshaping it, instead of shouting at it.
Anche la schietta recensione di Francesco su Vitaminic parla di distanza (e di come la si possa accettare), ed era quello che mi era piaciuto a una prima lettura. Ma tornandoci su, e leggendone altre in giro, mi sono accorto che esiste tutto un genere di recensioni degli Arcade Fire che tra le righe sembrano riguardare più le reazioni al loro disco, che non il disco in sé (PopMatters e Village Voice, per fare due esempi, entrambe non proprio lusinghiere nei confronti degli Arcade Fire - non sarà un caso). Mi pare che possa essere un indizio di quella sensazione di "fatica" che provavo anch'io. Come se si "sentisse il dovere" di avere un'opinione, senza in realtà averne molta voglia, perché gli Arcade Fire sono oramai "ineluttabili". Ripeto: ciò non toglie nulla alla loro musica, se di quella parliamo.
C'è poi chi, come Ben Sisario sul New York Times, che riflette sul loro primo posto in classifica, sul significato che questo ha per il genere indie (ancora?) e sull'inevitabile backlash che ciò comporterà. Partendo "dal caso Suburbs", Zach Baron trae un curioso specchietto dello stato di salute della musica indie nel 2010:
We are old and have money now and we are spread across this continent and we are desperate to find somewhere meaningful to put our consumer dollar. The Arcade Fire's fulsome instrumentation, ten-part harmonies, songs-that-have-sequels bombast, and apocalyptically mournful lyrics about moving to, yup, the suburbs certainly fit that bill.

>>>(mp3): Arcade Fire - Sprawl 3.0 (Rotiv mix) - trovata qui

(photo by Elena Morelli)

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