He says he’s always just wanted to make pop music, "but people don’t use that word… and then people start calling it indie-pop, which I FUCKING hate. Indie pop is my least favourite genre. I can’t stand it." [...] He says it’s funny working in a record shop and seeing the clientele for rock music in general – “it’s so unappealing; so oppressively white male that it doesn’t really speak to me that much anymore.” [...] “And living with indie boys,” he vents, “you put on a dub reggae record and they’re like, ‘eerrrrrr, I don’t know if I like this.’ And you can tell that a lot of the time there’s a very slight racism there as well, of, I don’t like black music. So I don’t hate indie music, but it’s the core values that it represents in my mind that I don’t like.”
Tutto quello che hanno fatto i Let's Wrestle l'ho amato. Da quando, ormai dieci anni fa, apparvero all'improvviso proclamando "this is the death of an indiepop fan", fino alla gloriosa serata in cui conclusero il loro concerto d'addio con un'improbabile rissa. Se ci ripenso, è successo senza nessun vero motivo. Un po' per partito preso, Wesley Gonzalez è sempre stato uno che "dice qualcosa a me e alla mia vita", anche se probabilmente lui sarebbe dell'idea che abbiamo poco in comune. Questa sua monumentale intervista su Loud And Quiet di qualche giorno fa, in cui si racconta l'inizio della sua seconda carriera (a 26 anni) e il suo prossimo esordio solista con Excellent Musician su Moshi Moshi, mi ha colpito duro. Non tanto per le confessioni sulla droga o per la sua rabbia adolescenziale: sono state le sue parole sulla scena musicale a cui dovrebbe appartenere e in cui non si riconosce. Lo so che ha ragione, come so che certi toni fanno parte del suo "personaggio", ma al tempo stesso, sento che qui ci manca sempre di più la terra sotto i piedi.
Quante volte, negli ultimi anni, abbiamo letto pezzi intorno al canovaccio "indie rock is dead"? Quante volte ci siamo sentiti ripetere che non è più l'epoca di Our Band Could Be Your Life? Come ha scritto Derek Robertson su Drowned In Sound, "this is indie rock's very own Groundhog Day". Sembra appena ieri che ci costringevano a metabolizzare la morte della stessa parola "indie", lo smarrimento del suo significato politico, la riduzione a genere musicale come estremo rinnegamento di quei valori, la nostalgia dei Novanta come ultima svendita eccetera eccetera... E ora non solo ci dicono che il genere sta scomparendo, via via meno rilevante dal punto di vista discografico (la cosiddetta "post-DIY era"), ma sta diventando pure qualcosa a cui contrapporsi? Qualcosa, addirittura, di sbagliato? Ascoltare i Pavement è il nuovo votare Democrazia Cristiana, ed eravamo troppo distratti dalle ristampe in vinile colorato dei Record Store Day per accorgercene? L'indie rock è diventato roba trita per borghesi discutibili.
Giusto ieri, Tracey Thorn ha rincarato la dose con un articolo dal programmatico titolo "The unbearable whiteness of Britpop" dove contesta la tradizionale lettura dei Novanta britannici, bianca e conservatrice, spingendosi a criticare anche una figura carismatica e rispettata come quella di Jarvis Cocker:
For some reason in the mid-Nineties a form of nostalgia began to hold sway, and we let it. In 2017, with the arguments about grime at the Brit Awards, I realise that we’re still having the same conversations about how to reflect and respect successful underground scenes, and we’re not much further on. Maybe the rot set in when we let the news lead with an item about two rock bands releasing singles on the same day and pretended that it was a groundbreaking story.
Ok Tracey, mi rendo conto che anche i dischi che ascoltiamo, i libri o i siti che leggiamo, i film che andiamo o non andiamo a vedere, le piattaforme digitali a cui ci abboniamo, tutto questo rappresenta, per usare un'espressione banale, una "scelta politica". Per il semplice motivo che esiste ed è all'opera una politica culturale, in maniera più o meno consapevole e collettiva. Per quanto ci crediamo raffinati intenditori, arguti critici, al sicuro nella nostra rigogliosa nicchia, siamo tutti anche il risultato (o forse solo la schiuma dell'onda) di uno Zeitgeist che ci ha prodotti.
Mi sento bloccato: da una parte, il nostro gusto, quello che si è formato e ci ha formati per una vita, non è mai apparso come oggi tanto anacronistico e superato; e dall'altra, la nostra stessa sensibilità per tutto ciò che si chiamava alternative ci spinge ora a riconoscerne i limiti, anche ideologici.
La sintesi più crudele e impietosa di questo stallo l'ha messa nero su bianco un mesetto fa Michael Hann, nell'editoriale con cui si congedava da music editor del Guardian:
Rock music is in its jazz phase. And I don’t mean it’s having a Kamasi Washington/Thundercat moment of extreme hipness. I mean it’s like Ryan Gosling’s version of jazz in La La Land: something fetishised by an older audience, but which has ceded its place at the centre of the pop-cultural conversation to other forms of music, ones less tied to a sense of history. Ones, dare I say it, more forward looking.
Siamo lontani dalle cose che succedono. "Forward looking", mi accorgo, non è sempre la prima cosa che chiedo alla musica che ascolto, e da cui, nonostante tutto, cerco ancora piacere. È sempre stato così? È un mio (o nostro) problema di anzianità di servizio? Nella nostra "range life" la musica è diventata una collezione di vanitose playlist, e non ci aiuta più a crescere? O sono invece le band e i dischi ad avere perso originalità, spinta propulsiva, attitudine (come si diceva una volta)? Oppure sono i critici e i giornalisti musicali a essere incapaci di leggere quello che succede, impigriti dall'appiattimento e dall'accelerazione del discorso intorno alla musica?
Oggi sembra più intelligente (vorrei dire opportuno, in tutte le sue sfumature) porre al centro dell'attenzione figure che si muovono su altri suoni e altri linguaggi, come una Beyoncé o un Kendrick Lamar, giusto per fare i primi nomi che mi vengono in mente. Il giro di soldi, il clickbait, la capacità di incidere sul presente sono incommensurabili. Invece, etichette come "guitar pop" o "post rock", per esempio, suonano oggi come il bacio della morte nella bio di una nuova band (che nove volte su dieci sarà composta da ragazzi bianchi). Poi mi torna in mente una domanda alla fine del bel pezzo di Steven Hyden, "For The Last Time: Rock Is Not Dead, You’re Just Not Paying Attention":
Iggy Pop was never a pop star. If music history solely reflected the marketplace, Iggy Pop would’ve been forgotten long ago. It was up to critics to remind future generations that this guy mattered.
During Gimme Danger, I found myself wondering: How would music critics in 2017 regard a band like the Stooges? Would they appreciate the unrelenting power of the band’s 1970 LP Fun House, or would they denigrate the Stooges because they were never as popular as Cat Stevens? Is it possible that the poor commercial performance of Fun House — surely one of the greatest rock albums ever made — would be used as evidence that rock was dead?
D'accordo, l'estetica indie rock ha ormai i capelli grigi come noi, e forse è vero: alcune contraddizioni latenti che ne erano alla base sono venute al pettine del tempo. Ma con gli anni si matura anche un certo disincanto per certi roboanti proclami, fossero pure quelli della morte dell'indie rock. Si legge meglio tra le righe la nostalgia dei vent'anni di una nuova generazione (benvenuti!), l'invidia per i "kids coming up from behind" che ora sono diventati gli altri. Ci si scopre anche abbastanza tranquilli ad aspettare "la puntualità delle mode musicali" e il prossimo giro di giostra.
Non aspettiamoci una nuova Seattle, e nemmeno i nuovi Strokes, come se nel frattempo non fosse successo nulla. I semi gettati in tutti questi anni sono qui, in mezzo a noi, e forse qualcuno è stato troppo impegnato a raccontarsi la fine dell'indie rock per prestare ascolto.
“Rock is changing, and some people can’t see how it is moving forward because they are waiting for a new Fugazi to show up,” he said, referring to the D.C. post-hardcore band famed for its principled, do-it-yourself ethos. “It’s not gonna happen.”
A parlare, dalle pagine del New Yorker, è Andrew Savage dei Parquet Courts, proprio una delle band che negli ultimi anni ha meglio spinto in avanti i confini della musica "fatta con le chitarre". Il bell'articolo di Hua Hsu, pur partendo da una passione personale, e non trascurando il cambiamento di paradigma nell'ethos indie rock, riesce a mantenersi lontano da nostalgie e rimpianti. In fondo, si tratta di riuscire ancora a raccontare qualcosa, a farti sentire qualcosa. Penso a parecchi dischi "weird" che miè capitato di ascoltare di recente, ma anche a nomi che in queste ultime stagioni sono riusciti a imporre la propria voce e le proprie regole: Mitski, Courtney Barnett, Vagabon, Sheer Mag, Allison Crutchfield, Girlpool... E sì: sto citando soltanto ragazze di proposito. Anche l'indiepop ha fatto la sua piccola parte, con l'ironia post-binary degli Spook School, l'irruenza dei Martha o la poesia dei Radiator Hospital. Immagino che qui ognuno potrebbe aggiungere i propri preferiti (a me, tanto per dire, dispiacerebbe lasciare fuori Car Seat Headrest).
Qualcuna di queste band l'avete vista passare nei vostri "New Music Friday" preferiti. Nessuna di queste band guadagnerà in tutta la carriera quanto gli one percenters delle Top10 intascheranno quest'anno. Nessuno di questi nomi salverà da solo l'indie rock, darà vita a un nuovo genere, e forse nemmeno passerà alla Storia. Ma la Storia non è finita. "The core values", caro Wesley, passano come tutto il resto: non perdiamo la mia ingenua fiducia, né la tua generosa rabbia, né la voglia di ascoltare ancora qualcosa di nuovo (per me è la cosa più difficile).
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