Shout Out Louds live @ Astra Kulturhaus, Berlino 2017/10/14
Per chi arriva da Bologna, la zona intorno all’Astra Kulturhaus di Berlino a prima vista ha un’aria abbastanza familiare: quello scenario post-industriale abbandonato e occupato, poi riconvertito e ripulito, e infine di nuovo consumato e degradato al livello in cui coesistono - tutto sommato pacificamente - graffiti di chissà quali illustri artisti ospitati in passato e furgoni di piadinari, neon colorati e angoli dove ammucchiare carcasse di lamiere, alberi monumentali e ruderi ricoperti di tag e cespugli, la progettualità e il pattume, bar asettici come Apple store e androni (probabili garage di giorno) intasati di divani vintage (o che diventeranno vintage dopodomani, non si vede bene) dove franare a finire birre inevitabilmente artigianali sotto lo sguardo severo di buttafuori e guardarobieri. Anche gli angoletti di spaccio fuori dai cancelli della metro sembrano in fin dei conti abbastanza composti, segnalati nell’ombra da uno speaker bluetooth che diffonde trap in mezzo alle gambe del gruppetto di ragazzi che mi attraversano con lo sguardo. È come se la capitale tedesca mi dicesse “vez, adesso te lo faccio vedere io come si fa la tua Piazza Verdi”.
Mi sembra per un attimo di ritornare a quella prima notte al Livello57, al Bestial Market di tanti anni fa, ma su scala esagerata. Questo è Blade Runner 2049 in 3D, e quello era Nirvana di Salvatores in videocassetta. Manca però negli occhi lo stesso stupore, lo stesso trasporto. Mi domando se esista un numero massimo di ex aree industriali riconvertite in centri sociali, spazi espositivi, squat, “laboratori”, orti urbani, localini tipici Instagram con le scritte in corsivo sulle lavagnette, che un tessuto urbano può sopportare di assorbire. Berlino deve essere senza dubbio uno dei principali esperimenti mondiali in questo ramo della ricerca, con una concentrazione vertiginosa di architetture che contengono e prolungano all’infinito ogni gesto compreso tra il currywurst, il vernissage, il kinderyoga e la coda per l’ingresso con accredito, e in mezzo una sosta ironica al Photoautomat da “veri” turisti.
Certo, atterrare a Berlino per un classico e iper-provinciale weekend mordi e fuggi leggendo Teoria della classe disagiata condiziona fatalmente la prospettiva. Eppure è vero che al decimo “questo era un grande magazzino della DDR, dopo il Muro è stato occupato, ci ho visto gli Yo La Tengo in una stanzetta così, adesso apre uno show-room della Mercedes” non si capisce più perché dovrebbe essere importante distinguere il confine tra l’autentico e l’autosuggestione. Non è più questione di cinismo: è solo design, “spiegato bene”.
Sono qui per vedere gli Shout Out Louds in concerto, nel 2017, e forse anche io non sono più il fiero Bauhaus di una volta. Nel quartierino semi-periferico che è la mia generazione esco sempre di meno, ogni tanto faccio un giro in bici di notte, quando non c’è traffico, ma a volte ho il sospetto di essere stato sgomberato pure io. Eppure non è sempre così: prendi per esempio questo splendido imbrunire d’autunno berlinese. A mano a mano che passano gli anni, le stagioni alla radio e i nuovi nomi delle serate negli stessi locali che frequentiamo da sempre; a mano a mano che gli ultimi lavori di gentrificazione di quello che chiamavamo “indie rock” non valgono più nemmeno come esercizio di stile per avanzi di clickbait; a mano a mano che i ricordi si confondono, i poster che strappavamo sono stati messi ordinatamente in cornice e per l’abbonamento alla passione della tua vita te la cavi con dieci euro al mese, l’idea stessa di continuare a fare una fragile cosa che facevi identica quindici anni prima – soltanto perché hai l’ingenua convinzione che sia ancora bella e importante – mi appare, giorno dopo giorno, sempre più inedita, sconvolgente e azzardata. L’azzardo modesto e irrilevante delle mie abitudini e dei miei logori gusti mi porta a guardare questi onesti musicisti, questa sera qui davanti a me, con una quantità di benevolenza, amore e riconoscenza che trascende qualsiasi valutazione della musica, per quanto la mia possa essere già soggettiva, del tutto di parte e via via meno lucida da qui fino alla fine del concerto. Voglio dire: sull’ultimo bis degli Shout Out Louds, una travolgente versione di Impossible che non voleva mai finire, siamo saliti di corsa sul palco a ballare in mezzo a Ted, Carl, Adam e Bebban. Abbiamo più di quarant’anni, dei figli, la maglietta inzuppata di sudore e vaffanculo: questa musica è ancora la nostra casa.
Per un periodo, è sembrato che gli Shout Out Louds non dovessero nemmeno arrivare qui. Molti dicevano che non ce la facevano più, che dopo l’ultimo album era passato troppo tempo, tempo più veloce del loro suono, altre scelte di vita, altre scelte di carriera non sempre indovinate, col senno di poi. Una manciata di recensioni gentili e poco più, “un gruppo da 7”, giusto per l’anzianità di servizio e l’affetto di qualcuno per i primi Duemila. Eppure il nuovo Ease My Mind è un disco sontuoso, compatto, perfetto compendio della storia della band svedese. Un disco che merita attenzione, che trabocca una serenità conquistata e che si lascia alle spalle domande e contraddizioni. Forse ha in scaletta un paio di ballate di troppo, forse soffre la mancanza di un vero singolo sferzante e decisivo, ma il suo passo mai troppo spedito e mai troppo lento trova il ritmo della tua malinconia e riesce a raccontarti la sua, anche dietro la luce calda e tranquilla che diffonde. Una malinconia sorridente in forma di pop pieno di chitarre e cori. Riesci a immaginare qualcosa di più anacronistico? E invece questo ennesimo tour europeo ha visto gli Shout registrare parecchi sold-out. Anche stasera ci sono andati vicino, ma l’Astra di Berlino, una elegantissima sala in legno ereditata dal Dopolavoro Ferroviario della Germania dell’Est, sembra davvero enorme. Oltre un migliaio di persone e ancora c’è spazio in fondo. Guadagno un posto avanti senza troppa fatica mentre stanno finendo The Hanged Man, il nuovo progetto di Rebecka Rolfart, chitarrista delle adorabili Those Dancing Days. Niente di più lontano da quelle atmosfere: tanto le Those Dancing Days si presentavano come solari e scanzonate, quanto gli Hanged Man suonano drammatici, a volte piuttosto ipnotici e dark. Sono molto bravi a creare spazi dilatati che le percussioni, affilati synth e la voce cupa di Rebecka riempiono con notevole passione. Ma la domanda che mi gira in mente tutto il tempo è che tipo di live faranno questa volta gli Shout Out Louds. Li ho visti attraversare più o meno tutte le fasi della loro carriera: dalla folgorazione a Emmaboda 2003, anno in cui esplosero in Svezia, con quell’indiepop travolgente che pestava forte come schietto rock’n’roll, passando per la stagione dei set più ambiziosi ed espansi, in qualche misura sulla traccia di certi Arcade Fire, fino agli ultimi anni, in cui anche le canzoni che sui dischi sembravano più cerebrali, introverse e asciutte, si animavano e si illuminavano, e ti abbracciavano come sanno fare solo gli Shout: un indie rock liberato, disteso, ormai senza tempo né pressioni.
L’attacco del concerto di Berlino mi stende: Paola, la canzone più apertamente New Order del nuovo album, un lungo inno all’età dell’oro, alla capacità di afferrarla, all’amicizia che tiene assieme una vita intera. Sentirla dal vivo, così enorme e scintillante, mi fa rabbrividire. La band è salita sul palco con calma, sembra in forma nonostante le settimane on the road, e la risposta del pubblico è subito imponente. Un elemento costante dopo tanti concerti degli Shout Out Louds: hanno sempre le platee più felici e sorridenti che abbia mai visto. Nel giro di cinque minuti sto parlando con una coppia che è arrivata in macchina da Praga. Ogni tanto si solleva un’onda di pogo, ma è una roba da festa del liceo. Le successive Very Loud e Fall Hard in rapida sequenza sono la doppietta che mi mette già definitivamente KO. Non ero pronto, non sapevo quanta voglia avessi di sentire di nuovo gli Shout Out Louds dal vivo. Sembra passato tantissimo tempo, e ogni ragionevole considerazione intorno al valore di un loro disco o un altro non ha più senso. Le loro canzoni hanno segnato così tanti momenti diversi sulla mappa dei miei ultimi tre lustri che lì, davanti al palco dell’Astra, è come se fossi più leggero, trasparente, e facessi tutto il giro da capo un’altra volta, ma senza dolore.
La scaletta del concerto procede così, tra canzoni classiche dentro cui perdere gambe e testa (Normandie, You Are Dreaming) e pezzi più recenti per tirare fiato (Throw Some Ligth, o la title track del nuovo album). Sulla devastante Tonight I Have To Leave It Adam scende a cantare in mezzo alle prime file, e a quel punto è inevitabile l’abbraccio collettivo tutti intorno a lui mentre perdiamo la voce. Per Walls sale invece sul palco come ospite Ian Hooper, cantante dei Mighty Oaks, band con cui gli Shout erano stati in tour nel 2013, e hai proprio l’impressione che tutto stia succedendo in maniera così naturale e “tra amici” che, nonostante la schiena non ti regga più, questa serata potrebbe anche non finire mai. Ma è interessante osservare come gli Shout Out Louds abbiano raggiunto un punto della propria storia in cui possono permettersi di lasciare fuori da un set alcuni dei loro singoli più noti come 100° o The Comeback, senza comunque far perdere al concerto un solo istante di intensità. Glielo devi concedere, li hai visti crescere, diventare la band matura e senza incertezze di oggi, ed è naturale che abbiano voglia di cambiare.
Grandioso finale, tre canzoni per il bis, prima Adam e Bebban da soli su una delicata Go Sadness, poi la nuova Porcelain (quasi un manifesto dell'ultimo lavoro) e infine Impossible, tirata, rimbombante e commovente come non mai. "Your love is something I cannot remember": ma concerti epocali come questo sanno risvegliare la memoria (e il cuore) come poche altre cose al mondo.
Per chi arriva da Bologna, la zona intorno all’Astra Kulturhaus di Berlino a prima vista ha un’aria abbastanza familiare: quello scenario post-industriale abbandonato e occupato, poi riconvertito e ripulito, e infine di nuovo consumato e degradato al livello in cui coesistono - tutto sommato pacificamente - graffiti di chissà quali illustri artisti ospitati in passato e furgoni di piadinari, neon colorati e angoli dove ammucchiare carcasse di lamiere, alberi monumentali e ruderi ricoperti di tag e cespugli, la progettualità e il pattume, bar asettici come Apple store e androni (probabili garage di giorno) intasati di divani vintage (o che diventeranno vintage dopodomani, non si vede bene) dove franare a finire birre inevitabilmente artigianali sotto lo sguardo severo di buttafuori e guardarobieri. Anche gli angoletti di spaccio fuori dai cancelli della metro sembrano in fin dei conti abbastanza composti, segnalati nell’ombra da uno speaker bluetooth che diffonde trap in mezzo alle gambe del gruppetto di ragazzi che mi attraversano con lo sguardo. È come se la capitale tedesca mi dicesse “vez, adesso te lo faccio vedere io come si fa la tua Piazza Verdi”.
Mi sembra per un attimo di ritornare a quella prima notte al Livello57, al Bestial Market di tanti anni fa, ma su scala esagerata. Questo è Blade Runner 2049 in 3D, e quello era Nirvana di Salvatores in videocassetta. Manca però negli occhi lo stesso stupore, lo stesso trasporto. Mi domando se esista un numero massimo di ex aree industriali riconvertite in centri sociali, spazi espositivi, squat, “laboratori”, orti urbani, localini tipici Instagram con le scritte in corsivo sulle lavagnette, che un tessuto urbano può sopportare di assorbire. Berlino deve essere senza dubbio uno dei principali esperimenti mondiali in questo ramo della ricerca, con una concentrazione vertiginosa di architetture che contengono e prolungano all’infinito ogni gesto compreso tra il currywurst, il vernissage, il kinderyoga e la coda per l’ingresso con accredito, e in mezzo una sosta ironica al Photoautomat da “veri” turisti.
Certo, atterrare a Berlino per un classico e iper-provinciale weekend mordi e fuggi leggendo Teoria della classe disagiata condiziona fatalmente la prospettiva. Eppure è vero che al decimo “questo era un grande magazzino della DDR, dopo il Muro è stato occupato, ci ho visto gli Yo La Tengo in una stanzetta così, adesso apre uno show-room della Mercedes” non si capisce più perché dovrebbe essere importante distinguere il confine tra l’autentico e l’autosuggestione. Non è più questione di cinismo: è solo design, “spiegato bene”.
Sono qui per vedere gli Shout Out Louds in concerto, nel 2017, e forse anche io non sono più il fiero Bauhaus di una volta. Nel quartierino semi-periferico che è la mia generazione esco sempre di meno, ogni tanto faccio un giro in bici di notte, quando non c’è traffico, ma a volte ho il sospetto di essere stato sgomberato pure io. Eppure non è sempre così: prendi per esempio questo splendido imbrunire d’autunno berlinese. A mano a mano che passano gli anni, le stagioni alla radio e i nuovi nomi delle serate negli stessi locali che frequentiamo da sempre; a mano a mano che gli ultimi lavori di gentrificazione di quello che chiamavamo “indie rock” non valgono più nemmeno come esercizio di stile per avanzi di clickbait; a mano a mano che i ricordi si confondono, i poster che strappavamo sono stati messi ordinatamente in cornice e per l’abbonamento alla passione della tua vita te la cavi con dieci euro al mese, l’idea stessa di continuare a fare una fragile cosa che facevi identica quindici anni prima – soltanto perché hai l’ingenua convinzione che sia ancora bella e importante – mi appare, giorno dopo giorno, sempre più inedita, sconvolgente e azzardata. L’azzardo modesto e irrilevante delle mie abitudini e dei miei logori gusti mi porta a guardare questi onesti musicisti, questa sera qui davanti a me, con una quantità di benevolenza, amore e riconoscenza che trascende qualsiasi valutazione della musica, per quanto la mia possa essere già soggettiva, del tutto di parte e via via meno lucida da qui fino alla fine del concerto. Voglio dire: sull’ultimo bis degli Shout Out Louds, una travolgente versione di Impossible che non voleva mai finire, siamo saliti di corsa sul palco a ballare in mezzo a Ted, Carl, Adam e Bebban. Abbiamo più di quarant’anni, dei figli, la maglietta inzuppata di sudore e vaffanculo: questa musica è ancora la nostra casa.
Per un periodo, è sembrato che gli Shout Out Louds non dovessero nemmeno arrivare qui. Molti dicevano che non ce la facevano più, che dopo l’ultimo album era passato troppo tempo, tempo più veloce del loro suono, altre scelte di vita, altre scelte di carriera non sempre indovinate, col senno di poi. Una manciata di recensioni gentili e poco più, “un gruppo da 7”, giusto per l’anzianità di servizio e l’affetto di qualcuno per i primi Duemila. Eppure il nuovo Ease My Mind è un disco sontuoso, compatto, perfetto compendio della storia della band svedese. Un disco che merita attenzione, che trabocca una serenità conquistata e che si lascia alle spalle domande e contraddizioni. Forse ha in scaletta un paio di ballate di troppo, forse soffre la mancanza di un vero singolo sferzante e decisivo, ma il suo passo mai troppo spedito e mai troppo lento trova il ritmo della tua malinconia e riesce a raccontarti la sua, anche dietro la luce calda e tranquilla che diffonde. Una malinconia sorridente in forma di pop pieno di chitarre e cori. Riesci a immaginare qualcosa di più anacronistico? E invece questo ennesimo tour europeo ha visto gli Shout registrare parecchi sold-out. Anche stasera ci sono andati vicino, ma l’Astra di Berlino, una elegantissima sala in legno ereditata dal Dopolavoro Ferroviario della Germania dell’Est, sembra davvero enorme. Oltre un migliaio di persone e ancora c’è spazio in fondo. Guadagno un posto avanti senza troppa fatica mentre stanno finendo The Hanged Man, il nuovo progetto di Rebecka Rolfart, chitarrista delle adorabili Those Dancing Days. Niente di più lontano da quelle atmosfere: tanto le Those Dancing Days si presentavano come solari e scanzonate, quanto gli Hanged Man suonano drammatici, a volte piuttosto ipnotici e dark. Sono molto bravi a creare spazi dilatati che le percussioni, affilati synth e la voce cupa di Rebecka riempiono con notevole passione. Ma la domanda che mi gira in mente tutto il tempo è che tipo di live faranno questa volta gli Shout Out Louds. Li ho visti attraversare più o meno tutte le fasi della loro carriera: dalla folgorazione a Emmaboda 2003, anno in cui esplosero in Svezia, con quell’indiepop travolgente che pestava forte come schietto rock’n’roll, passando per la stagione dei set più ambiziosi ed espansi, in qualche misura sulla traccia di certi Arcade Fire, fino agli ultimi anni, in cui anche le canzoni che sui dischi sembravano più cerebrali, introverse e asciutte, si animavano e si illuminavano, e ti abbracciavano come sanno fare solo gli Shout: un indie rock liberato, disteso, ormai senza tempo né pressioni.
L’attacco del concerto di Berlino mi stende: Paola, la canzone più apertamente New Order del nuovo album, un lungo inno all’età dell’oro, alla capacità di afferrarla, all’amicizia che tiene assieme una vita intera. Sentirla dal vivo, così enorme e scintillante, mi fa rabbrividire. La band è salita sul palco con calma, sembra in forma nonostante le settimane on the road, e la risposta del pubblico è subito imponente. Un elemento costante dopo tanti concerti degli Shout Out Louds: hanno sempre le platee più felici e sorridenti che abbia mai visto. Nel giro di cinque minuti sto parlando con una coppia che è arrivata in macchina da Praga. Ogni tanto si solleva un’onda di pogo, ma è una roba da festa del liceo. Le successive Very Loud e Fall Hard in rapida sequenza sono la doppietta che mi mette già definitivamente KO. Non ero pronto, non sapevo quanta voglia avessi di sentire di nuovo gli Shout Out Louds dal vivo. Sembra passato tantissimo tempo, e ogni ragionevole considerazione intorno al valore di un loro disco o un altro non ha più senso. Le loro canzoni hanno segnato così tanti momenti diversi sulla mappa dei miei ultimi tre lustri che lì, davanti al palco dell’Astra, è come se fossi più leggero, trasparente, e facessi tutto il giro da capo un’altra volta, ma senza dolore.
La scaletta del concerto procede così, tra canzoni classiche dentro cui perdere gambe e testa (Normandie, You Are Dreaming) e pezzi più recenti per tirare fiato (Throw Some Ligth, o la title track del nuovo album). Sulla devastante Tonight I Have To Leave It Adam scende a cantare in mezzo alle prime file, e a quel punto è inevitabile l’abbraccio collettivo tutti intorno a lui mentre perdiamo la voce. Per Walls sale invece sul palco come ospite Ian Hooper, cantante dei Mighty Oaks, band con cui gli Shout erano stati in tour nel 2013, e hai proprio l’impressione che tutto stia succedendo in maniera così naturale e “tra amici” che, nonostante la schiena non ti regga più, questa serata potrebbe anche non finire mai. Ma è interessante osservare come gli Shout Out Louds abbiano raggiunto un punto della propria storia in cui possono permettersi di lasciare fuori da un set alcuni dei loro singoli più noti come 100° o The Comeback, senza comunque far perdere al concerto un solo istante di intensità. Glielo devi concedere, li hai visti crescere, diventare la band matura e senza incertezze di oggi, ed è naturale che abbiano voglia di cambiare.
Grandioso finale, tre canzoni per il bis, prima Adam e Bebban da soli su una delicata Go Sadness, poi la nuova Porcelain (quasi un manifesto dell'ultimo lavoro) e infine Impossible, tirata, rimbombante e commovente come non mai. "Your love is something I cannot remember": ma concerti epocali come questo sanno risvegliare la memoria (e il cuore) come poche altre cose al mondo.
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