Come fotografie in cornice sopra un vecchio mobile che dietro la polvere dell'abitudine ormai non vedi più, ogni cosa è ancora lì, al suo posto, e basta soltanto tornare, soffermarsi e trovare uno sguardo nuovo. Dentro questo "primo" disco dei Last Leaves ritrovi tutto quello che tre quarti dei suoi componenti ci avevano insegnato ad amare vent'anni fa, quando facevano parte dei Lucksmiths, una band che come poche altre è stata capace di dare voce alla poesia dell'indiepop.
Other Towns Than Ours ti offre ancora quelle ricorrenti annotazioni meterologiche in cambio di metafore sentimentali, quelle scene di interni carichi di memorie tanto quanto di attese, quei versi nitidi e complessi che solo loro erano capaci di costruire ("At the moment that a pardalote careered into the windows / they were halfway through the crossword / and her hopes were fading").
Le canzoni della band di Melbourne racchiudono ancora le loro storie tra la tenerezza per il passato ("All this was years ago...") e un presente fitto di domande ("The world we had, where did it go?"). Di sicuro "it's a little late for second thoughts", e ormai abbiamo capito che "the past is a single star motel", ma almeno abbiamo la certezza di custodire da qualche parte nel cuore una felicità che è stata, ed è ancora, soltanto nostra.
La vertigine dentro i piccoli momenti del quotidiano raccontata da Marty Donald (ora principale autore del gruppo) insieme a Mark Monnone e Louis Richter, e con l'apporto alla batteria di Noah Symons dei Great Earthquake, forse sente un po' la mancanza della leggerezza di Tali White. Il suono si è allontanato dai colori più schiettamente twee di un tempo, e qui prevale l'anima più folk pop e più intima della loro scrittura. Ma resta comunque la musica che senti risuonare più dolce mentre l'aria si fa sottile, e l'ultima luce di un tramonto lungo una strada lontana prende la forma dei tuoi ricordi.
Commenti
Posta un commento