You are a word I made up when I'm high
I gave you meaning but I don't know why
and you can make me cry
Ho scoperto che c'è una cosa che mi piace tantissimo dentro i dischi di Frankie Cosmos, e che nel nuovo Vessel mi colpisce ancora di più, rispetto ai suoi lavori precedenti. In queste canzoni ci sono molte lacrime, come ci sono molte risate, molti abbracci e molte situazioni buffe: ma non c'è mai davvero nostalgia. È vero: ogni tanto parlano di passato, rotture sentimentali e momenti infelici, ma mi sembra che la maggior parte del tempo si muovano tra le cose come sono e le cose come dovrebbero essere. Ci sono più sogni che malinconia, più voglia e desideri che rinunce, più dialoghi che solitudini. A volte sembra quasi che la voce di queste canzoni stia letteralmente dando istruzioni all'amore su come vorrebbe che funzionasse: "you make me blue / I wanna make / a man out of you".
C'è una delicata risolutezza che non ha niente a che vedere con la "leziosità" che molti attribuiscono di solito all'indiepop, e che si traduce in qualcosa che assomiglia a un pratico buon senso: "you could take me and my apathy / turn us into clarity". Oppure, in maniera ancora più diretta: "if you miss your friend / call them again". C'è anche moltissimo romanticismo, com'è ovvio che sia (This Stuff, Duet...), ma ci sono anche un sacco di passaggi in cui il personaggio di Frankie Cosmos sembra soltanto cercare di capire quale posto prendere nel mondo ("being alive matters quite a bit / even when you feel like shit"), con quel senso dell'umorismo del tutto peculiare che ormai conosciamo: "I wasn't built for this world / I had sex once / now I'm dead".
Eppure, a fronte di tutta quest'opera di smantellamento del più prevedibile e banale manierismo malinconico, le canzoni di Vessel non perdono un briciolo della loro capacità di diventare poesia. Certi istanti vengono isolati, smontati e messi dentro piccole cornici, o in sospensione dentro vasi di vetro. Ma anche in quel caso non mi colpisce solo il particolare: resto soprattutto incantato dal punto di vista che la giovane cantautrice di New York riesce a indovinare ogni volta.
Forse la sua scrittura ha acquisito ancora più forza in questo terzo album in studio perché la band che l'accompagna dal vivo sembra intervenire in misura maggiore nelle registrazioni. Certi arrangiamenti come quelli di Jesse, Ballad Of R&J o la title track, per quanto essenziali e diretti, mostrano (se ce ne fosse ancora bisogno, dopo le ultime due prove su vinile) come Frankie Cosmos non sia più un semplice progetto da cameretta di Greta Kline, o qualche timido "fenomeno da Bandcamp" a bassa fedeltà. Non scende a compromessi: qui ci troviamo di fronte a 18 canzoni in 33 minuti, tanto per non smentirci, e ci sono anche un paio di accelerazioni più elettriche quasi punk (di quel twee-punk che mi fa tornare in mente i Quarterbacks).
Ma alla fine, quello che mi resta di tutti queste fugaci schegge di canzoni, è l'impressione d'insieme, un quadro vivido e appassionato, più grande e variopinto di quello che ti aspettavi. Eppure non c'è spazio per la malinconia, tra i ricordi da custodire, le nuove storie da raccontare e tutto il resto ancora da scoprire c'è ancora troppo da vivere.
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