Just one more memory before it’s time to leave


CASTLEBEAT - VHS



Oscilla, assedia, insiste, insoddisfatta ma determinata a non muoversi da lì. La musica di Castlebeat gira in circolo, e più riesce a essere frenetica e vorticosa, meno si sposta dal suo punto di equilibrio, un centro su cui tutto appoggia nel medesimo tempo: agitati riff di chitarra (da Smiths e Cure giù fino a Beach Fossils e Wild Nothing), drum machine scarne e impazienti, bassi sintetici e pulsanti, e una voce sempre distante, persa tra sogni di riverberi.

Josh Hwang sembra cantare parole ricordate solo a metà, versi brevi, appunti di cose che doveva dire a qualcuno che forse non è più qui: “so what's new / how are you doing / oh it's been too long / by the way / where are we going / are we going”. È tutto pieno di ripetizioni e incertezze, alla costante ricerca di un segnale chiaro: “we're lost and tired / but let's just keep / wasting time”. Salvo poi gelarti con certi scatti improvvisi, sempre consegnati in quella sua maniera quasi distratta: “you once told me / never be the one and only / now I'm learning / life is always over shortly”.

Dicono tutti che questo bedroom pop è fatto di scintillante malinconia, e queste happy-sad-jangling-guitars sarebbero soltanto “dreamy”, ma sul fondo a me sembra che ci sia qualcosa di più netto, una specie di amarezza che, nonostante sappia anche vestirsi d’estate, non perde la sua ostinazione: “mirror mirror on the wall / I don't know what my life is for”.

Quelle di VHS, il secondo album di Castlebeat, sono canzoni soltanto in apparenza lo-fi e laconiche, un travestimento dimesso per dissimulare la loro vera natura. Un intreccio di influenze, reminiscenze, citazioni e attraversamenti talmente avviluppato e intricato da tornare a essere genuino, spontaneo, una nuova origine. Come quasi tutto quello che produce la Spirit Goth, l’etichetta del ventiquattrenne Hwang, questo non è più indiepop: è library music per i documentari che un giorno faranno su quel marginale frammento di contemporaneità che è stato l’indiepop nel ventunesimo secolo, e a me sembra sinceramente meravigliosa.









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