Il disco italiano che ho cantato di più quest'anno è stato Arto di Setti. Mi rendo conto che non è un granché come recensione o annotazione critica, ma quei momenti in cui tutti e quattro in macchina ci siamo trovati a urlare in coro "tu resta pure in Iowa, per me", come qualche scena in scala di un film di Moretti, sono piccole polaroid personali di questo 2018 che custodirò per sempre. Cosa dovrebbe darci di più un disco?
Arto non sembra un'opera che molti definirebbero "importante", non è album perfetto nemmeno per me che lo amo, però è diventato qualcosa di più, ha finito per essere anche altro: un plaid abbracciato sovrappensiero, l'ultimo goccio nel bicchiere prima di alzarci insieme da tavola, un ritorno a casa accolto dai disegni appesi sulla porta, un sorriso in silenzio mentre stiamo per dire la stessa cosa. Insomma: uno di famiglia.
Non siamo uguali ma le sue storie sono un po' anche le mie. Lo ascolto e lo riascolto ed è come riconoscere la stessa inclinazione dello sguardo, l’attaccatura dei capelli, l’impazienza. Guardo lui e penso a me. Penso a me e mi torna sempre in mente lui. A volte ci parliamo, a volte vorrei cambiargli le parole, però ci vogliamo bene in un modo così annodato che è difficile da spiegare. Per esempio, anche il mio ritornello preferito di tutto l’album in un certo senso è sbagliato, e vorrei sedermi lì accanto alla canzone, chiederle perché dentro "Non saremo due astronauti / ma vedrai che qualche stella la vedremo pure noi" ha lasciato una ripetizione. Ci poteva girare attorno, trovare un altro escamotage, ma non puoi dirle niente: è fatta così, fa quel gesto così, e tu gli puoi soltanto volere bene.
Quei due versi sono proprio un buon esempio della maniera che ha Setti di stenderti con gentilezza, quegli uno-due garbati che piegano e ripiegano le frasi (“Mai stato quello / che tu hai amato di più / va bene così / anche se tu, invece, sì”), tu riesci a scioglierle solo un attimo dopo, mentre la strofa è già andata, e ti ritrovi un po’ spiazzato. Sembrava non esserci niente di speciale, stavi già per credere di avere capito tutto (“ah, che zibaldone questo Setti, che fa il cantautore con queste liriche così povere e quotidiane”) e invece ecco che ti arriva addosso la bellezza. Poi magari due minuti dopo, è lo stesso Setti a buttare via tutto con certe rime di cui non c’era tantissimo bisogno (bidet / pan carré?), ma anche quello è nella sincerità del suo sorriso, un po’ distratto e un po' triste. Anche quello, in fondo, fa parte del suo understatement, una modestia quasi al limite della contraddizione, per uno che fa arte (Arto/arty) ma poi precisa subito che è con la a minuscola, niente di che, passavo di qui per caso, e tu come stai?
E poi arriva sempre la musica a salvare Arto, un disco davvero bello da ascoltare tutto d’un fiato, con le sue tracce da un minuto e mezzo, che sembrano quasi scappare via come dicessero “grazie, ma figurati, non volevo disturbare”. Wisconsin è una delle migliori canzoni indiepop sentite da anni in Italia, pura grazia da acerbi Lucksmiths; Presente sembra infilarsi in una linea CCCP-Cani ma dirottando la nevrosi verso la malinconia (e chi ricorda i Dealership ballerà felice); Iowa si inerpica a perdifiato come facevano i Perturbazione con quella vite lontana; qui e là ci si dondola Yo La Tengo come in Stanza o in Bestia, e ci si meraviglia per quelle specie di fiati che appaiono all'improvviso nelle retrovie di Woods, o per quelle carezze di banjo nella stralunata Barbecue. Ma anche quando Setti gioca di sottrazione riesce a essere efficace: vedi il folk acustico lievissimo (e amarissimo) di Legno o Orizzonte, oppure il rock denudato, sconnesso e ostinato di Mi mancavi.
Credo che a questo proposito siano qui da citare un po' di persone che hanno partecipato alle registrazioni e che hanno fatto di Arto il disco che suona oggi: Luca Mazzieri, già Wolther Goes Stranger / A Classic Education / JJ Mazz, che ha curato la produzione e non ha fatto mancare le sue consuete chitarre lancinanti; Luca Lovisetto dei Baseball Gregg, che sembra poter davvero trasformare in oro qualunque musica su cui metta la mani; e poi un po' di altri componenti della gang La Barberia Records, come Stefano Mappa (Smash), le Avocadoz, e Lucio Pellacani, che ha catturato quella foto di copertina, così seriosa ma anche così allegramente fuorviante.
Arto (che è disponibile anche in vinile per Vaccino Dischi) si apre con un verso che dice "Quando entra nella stanza si ferma tutto", mentre la frase con cui si chiude è "Io cerco un cuore di legno / sì però con te tutto attorno". È quasi come se con questa circolarità tutto il disco cercasse di raccontare uno stesso spazio, il momento in cui le due persone dentro quello spazio diventano (o non diventano) una relazione. È un incontro e anche il fermo immagine di una distanza: "è la cosa mai avuta a cui tengo di più". In quella differenza che si colma di continuo ma non passa mai, Setti riesce a inquadrare e raccogliere la sua poesia.
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