I giorni in cui ti sembra di avere fatto tutto quello che dovevi; i giorni in cui “ehi, non ci possiamo certo lamentare”; i giorni in cui ti sei comportato da diligente impiegato nell'ufficetto della tua esistenza: eppure, alla fine, lì dentro qualcosa ancora non torna. Qualcosa ti manca e sbatti contro una frustrazione che non sai dove scacciare. I giorni in cui credevi di meritare finalmente qualcosa di più, e invece non arriva niente e nessuno, se non qualche nuova bastonata. Tutti quei giorni, che diventano stagioni e anni, passati ad aspettare che la vita cominci, a mettere da parte buoni propositi e idee per quando sarà il nostro momento. Ma il momento era qui.
Di questo canta, nonostante tutto con sorprendente leggerezza e schiettezza, Ripe For Anarchy, il nuovo album di Business Of Dreams, ovvero Corey Cunningham, già nei nostri amati Terry Malts e prima ancora nei Magic Bullets. A partire da titoli come Negativity Rules Everything Around Me oppure I Feel Dread si intuisce il filo conduttore di queste undici canzoni, ma l’acutezza della penna di Cunningham sta nel riuscire a tenersi lontano dai toni più drammatici e restituirci un racconto nitido e autentico dei rimpianti e delle fatiche della vita di tutti i giorni. Una certa discrezione anche nell'essere perdenti: "while the time saps your soul / a hole grows where hope corrodes".
C’è una vecchia città in cui siamo cresciuti e che, a un certo punto, ci sembra di non riconoscere più. Ci sono le illusioni di un’altra età più giovane che tornano a soffiare sul cuore e ci fanno sentire sconfitti. Ci sono lettere a lontani amori che meritavano di essere trattati meglio da noi. C’è l’interminabile lotta per strappare due soldi e non soccombere alla fine di ogni giornata.
Cunningham ha abbandonato la scena musicale californiana alcuni anni fa per tornare a casa nel Tennessee dopo la morte del padre, e questo stato d’animo evidentemente lo porta a confrontarsi con temi difficili anche nelle sue canzoni. Ma la limpida linearità dei versi, da un lato, e la scelta di arrangiamenti che vanno verso un synth-pop quasi trasparente (vengono subito in mente certi Field Mice, oppure i Magnetic Fields) fanno di Ripe For Anarchy un disco che sa trattare la propria tristezza e malinconia senza suonare troppo triste o malinconico, almeno in apparenza. Anche la scelta di una cover amarissima come Hatchet Song degli Sparklehorse diventa l’occasione per tirare fuori una piccola gemma twee come forse sarebbe riuscita ai Pains Of Being Pure At Heart dell’ultima parte della carriera.
I versi con cui si chiude il disco sono quelli più cupi di tutti: "grief is a constant friend / I close my eye and embrace the end". Ma si trovano anche dentro una delle canzoni più scintillanti della scaletta, quasi New Order, tutta protesa a inseguire una luce sfuggente, sorretta dalla propulsione del basso. Un finale che si eleva. Ed è questo contrasto, in ultima analisi, a fare di Ripe For Anarchy un lavoro tutt'altro che rassegnato o disperato: un indiepop che sa riscattarsi e non rinuncia a restare in cerca di sé stesso.
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