"The more this model grows, the more inefficient it becomes"




Music Streaming Services Are Gaslighting Us
(immagine via Spotify)



Qualche giorno fa, Spotify ha annunciato con molta enfasi di avere superato i 100 milioni di utenti paganti (intanto, però, la media dei ricavi per utente è scesa in tutto il mondo, e di conseguenza è sceso anche il valore delle azioni di Spotify). Stavo per dimenticare la notizia quando un paio di giorni dopo ho cominciato a vedere linkato ovunque questo articolo intitolato "Music Streaming Services Are Gaslighting Us", scritto da Darren Hemmings, curatore tra l'altro della newsletter Motive Unknown.

La premessa dell'articolo è abbastanza risaputa da almeno una decina d'anni:


We are constantly being told by the likes of Spotify that they can enhance our music discovery. Algorithms and their own curated playlists should give us no end of music to enjoy. But the sheer volume, coupled with zero friction, results in the much-cited “paradox of choice”.

Lo sviluppo del discorso mi interessa perché anche io, come immagino molti altri, sempre più spesso vivo il cambiamento di ritmo degli ascolti musicali con fastidio: montagne di dischi (montagne impalpabili, fatte di file o, ancora peggio, di link) ascoltati di passaggio "per rendersi conto di cosa parlano tutti oggi", a cui seguono periodi di letterale rifiuto di ascolto. La (quasi) completa accessibilità della musica, l'accumulo convulso di discorsi sempre meno significativi intorno a dischi e band, e la mancanza di quella "friction" di cui parla Hemmings portano a una condizione di nausea. Il contrario del piacere che dovrei trovare in una delle cose a cui ho dato più importanza nella mia vita. Si parla di "enjoy", ma lo si intende davvero?

Il problema del "piacere" era stato al centro di un articolo scritto da Jayson Greene qualche mese fa su Pitchfork, "Are We Having Fun Yet? On Pop’s Morose New Normal", in cui si analizzava la prevalenza di temi cupi e angosciosi nel pop contemporaneo. Di passaggio, si citava anche lo streaming:


Streaming extends music's reach into our lives while diminishing its position — thanks to its ease, and the availability of mood-based playlists, we listen to music more often, and we also do more half-listening than even before. Streaming is more isolated than older media, both more ephemeral and more intimate. Even with something as incorporeal as an MP3, there was still one click, one discreet credit-card charge, one consumer decision, and one implicit bargain made in the process—this song will be worth your 99 cents. Streaming entire catalogs shifts the emphasis, subtly but surely. Music listening, particularly the casual kind, is no longer so much as a choice as a reflex — come home, turn on the lights, let a playlist murmur away.

Potremmo fermarci qui, e questo sarebbe un qualunque post da "vecchiazza" pubblicato qui sul blog circa nel 2009. Ma Hemmings spinge la riflessione oltre, chiedendosi quanto sia sostenibile tutto ciò, quanto la nostra personale condizione di "fastidio" non solo sia conseguenza ma influenzi e, alla lunga, danneggi la cultura stessa in cui si trovano a operare gli artisti:


Just like Silicon Valley in general, there is this mindset that having everything available all the time is a good thing. It isn’t — and it is arguably damaging art and culture as a result. [...] In 2019, artists need meaningful patronage, not a speech about how they could get more streams. That patronage might come from merch or other means, but it should come from music too.

L'esempio che porta Hemmings è quello di Bandcamp, una piattaforma che permette alle band di distribuire in streaming e vendere (sia musica che merchandising), e in cui la maggior parte dei soldi che noi spendiamo arriva direttamente agli artisti stessi, attraverso un contatto diretto. Aggiungo anche che Bandcamp ha una sezione editoriale di consigli e approfondimenti da far invidia a testate ben più blasonate, e che da poco ha annunciato l'ingresso nella produzione di vinili. Insomma: un ecosistema in cui la fruizione della musica sembra essere ancora al centro e avere ancora un ritmo umano (non sarà un caso che Bandcamp è anche la piattaforma preferita della rinascita delle tape labels).

Intendiamoci: Bandcamp non è il Sole Dell'Avvenire, è una company come altre e deve fare profitto, non è immune da difetti, probabilmente tra pochi anni avrà nuovi concorrenti o il mercato richiederà nuovi strumenti. Ma un'idea che la massa di musica ("40.000 tracks uploaded every day!") non sia soltanto il combustibile per una piattaforma che sembra avere come unico scopo la propria espansione mi sembra già un passo in una direzione diversa e più salutare.

Lo so che è anacronistico, ma qualunque mezzo, qualunque alternativa "meaningful", come dice Hemmings, riesca a (ri)dare alla musica (e a me) un contesto, un senso di appartenenza e la sensazione di non rendere il mondo un posto peggiore e più povero ogni giorno che passa credo sia da sostenere.









... I've wasted all my time

Don't pay me any mind...
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