Come l’autunno di poche parole torna ancora una volta a insinuarsi, con un sussulto, tra questo pomeriggio in cui sembrava si potesse continuare a stare fuori in maglietta e la pedalata controvento del brusco imbrunire, in mezzo alle foglie che spazzano la strada e sotto le prime gocce che cominciano a cadere, così anche Frankie Cosmos lascia che tra gli aggraziati versi del suo ultimo album Close It Quietly filtrino brividi, angoli cupi e umidi, un freddo già presagito, un senso della fine, però naturale, quotidiano, un ordinario passaggio di stagione.
Dall’apertura apocalittica di “The world is crumbling and I don't have much to say / We say goodbye” (Moonsea), passando per la schietta ammissione “I wanna stop being in this life” (Self-Destruct), fino ad arrivare alla conclusiva This Swirling che, dopo avere constatato come “just standing here seems like a good start for me to cry”, si abbandona a un funereo scioglilingua: “I will die trying / I will die crying / I will cry dying / I will try crying / I will cry trying”.
Close It Quietly è il quarto album in studio di Frankie Cosmos, dopo la lunga e prolifica gavetta DIY su Bandcamp, e Greta Kline può contare ormai su una band stabile, nonché su una label di peso come la Sub Pop, e a questo lavoro si aggiunge anche la produzione di Gabe Wax (già al fianco di War On Drugs, Beirut, Fleet Foxes, fra gli altri). La consistenza e la confidenza della sua scrittura si sono rafforzate anno dopo anno: per quel che può valere un certo dato statistico, dai tempi di Zentropy del 2015 il minutaggio è raddoppiato, e così anche il numero delle tracce. Ma non è soltanto questione di quantità. Ccon molto disincanto 41st si domanda infatti: “Does anyone wanna hear the 40 songs I wrote this year?”. È una qualità oggi ancora più acuta, che conosce e quasi insegue la propria fragilità. E una voce che si mette di continuo in discussione.
La poesia di Greta Kline è un gioco sempre più sottile di equilibri tra l’attenta osservazione di ciò che la circonda (“Your windows glisten yellow in the sunset / I got teary looking at the sky again”), e la scrupolosa analisi di quello che succede al proprio cuore e ai propri pensieri: “I do not know what I am for / I wasn't really keeping score / It wasn't really a game / Flowers don't grow in an organized way / Why should I?”.
Di fronte alla musica di Frankie Cosmos, da tempo non ho alcun interesse a inventare giudizi o a far finta di avere un’opinione obiettiva da argomentare. La più sciocca recensione di questo ultimo lavoro che ho visto in giro diceva “[it] doesn’t sound particularly exciting or new, but it certainly succeeds at its intentions – it’s a triumphant album for people that find catharsis in indie pop’s niceness”. Se tieni in considerazione soltanto il grado di “novità” di un disco, e se scambi quello che Frankie Cosmos racconta per “niceness”, puoi passare oltre e impiegare meglio questi quaranta minuti della tua vita. Se invece trovi interessante, vorrei dire fecondo, lasciarti trasportare dall’incanto di piccole e continue illuminazioni (“love is a miracle / cause life's a dream”), allora in questo album potresti scoprire davvero molto.
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