Difficile oggi parlare di dischi nuovi, segnalare canzoni che mi sono piaciute o band appena scoperte. Oggi la notizia è una sola ed è inutile e dannoso girarci intorno: la Burger Records, come ora si usa dire, “is canceled”. La giornata è cominciata con la lettura del lungo articolo di Consequence Of Sounds che elenca, non risparmiando dettagli, i numerosi casi di abusi e molestie sessuali, comportamenti aggressivi e misogini, ed episodi di plagio (anche nei confronti di minorenni) che riguardano band del giro della label californiana.
Le accuse sono partite da un account Instagram chiamato “Lured by Burger Records” (letteralmente “Adescate dalla Burger Records”), account che ha cominciato a raccogliere testimonianze sia di vittime tra le fan, sia tra colleghe musiciste (vedi Clementine Creevy delle Cherry Glazerr, Haley Dahl delle Sloppy Jane e Lydia Night dei The Regrettes).
La denuncia principale si riassume in questa dichiarazione nel post iniziale di LBBR:
«La Burger Records è responsabile di avere contribuito a creare una cultura basata su tendenze pedofile e sulla feticizzazione dell’adolescenza, permettendo a predatori sessuali di avvicinarsi alle migliaia di adolescenti che pagavano fior di dollari per andare ai loro concerti quasi quotidiani. Uomini della Burger Records hanno attirato ragazzine nei tour van, nella stanza sul retro del negozio della Burger Records e in un magazzino abitato all'interno della proprietà Burger Records. Queste persone saranno ritenute responsabili e non ci sarà più silenzio».
La lista di testimonianze è lunga, un’ampia raccolta la trovate nella newsletter di “Last Donut of the Night”, curata da Larry Fitzmaurice (già firma di Pitchfork, Tiny Mix Tapes, Fader, SPIN e parecchio altro). Probabilmente altre voci si uniranno nei prossimi giorni. È una lettura spiacevole. Se, da un lato, mi accorgo di leggere facendo automatiche distinzioni nella mia testa (“eh, però questo è un po’ lo spirito del rock’n’roll” oppure “sì, ma esiste una differenza tra…”), tutti atteggiamenti che tendono a scavalcare le voci delle vittime, dall'altro cerco di capire come – nel 2020! – sia possibile fare un passo avanti per superare queste situazioni e per non renderle più accettabili né possibili.
Negli ultimi giorni, nel caso Burger sono stati coinvolti a vario titolo un sacco di nomi, tra i quali anche diverse band che spesso ho suonato in radio, di cui ho scritto su queste paginette e che mi piacciono o mi sono piaciute: Growlers, Black Lips, Tomorrow Tulips, Part Time, accostati ad altri come SWMR, Love Cop, Gap Dream, Audacity, Cosmonauts, Buttertones. Alla fine, non sembra nemmeno più un registro di incidenti ma la descrizione di un approccio sistematico al rapporto tra band e il pubblico più giovane.
Devo ammettere che, oltre al pensiero per le vittime, avvertivo anche un disagio personale: dovevo rivedere tutto quello che avevo pensato di quelle band e che magari avevo scritto qui? In che misura sei "complice" se anche tu, ultimo blogghetto di provincia, concedi spazio a questo genere di persone? Dovevo andare ad aggiungere post-scriptum e note “dieci anni dopo” a post che non vedrà mai più nessuno? Non tanto per l’ipotetico (è il caso di dirlo) “pubblico” di questo blog, ma proprio per me, per ricordare a me per primo che un disco o una canzone possono anche non essere più soltanto parole e musica, “una bella vibe”, quel vivace riflesso che credevamo arrivare da una scena californiana tutta surf, party ed euforia a mille. Possono anche rappresentare violenza, traumi, vite molto misere.
Per me l’apoteosi della Burger, prima che in effetti cominciassi un po’ a perdere di vista il ritmo e il senso di tutte le loro innumerevoli uscite, fu tra il 2012 e il 2013, all’epoca dell’innamoramento di Hedi Slimane – in quegli anni direttore creativo di Saint Laurent, niente meno – per la label californiana. Mi ero sinceramente e forse ingenuamente esaltato per le sue foto di backstage in un intenso bianco e nero, per la poesia che riusciva a dare a un ambiente che credevo affine, per quell’entusiasmo che circondava ogni festival e ogni concerto. Se vado a ritrovare le righe scritte allora, si parla senza remore di "teenage" e “doing it for the kids”, frasi che rilette oggi assumono una connotazione sgradevole. Qualcuno molto meglio informato di me, però, già a quel tempo notava le contraddizioni di casa Burger: Mariana Timony, oggi curatrice della parte editoriale di Bandcamp, in un dettagliato reportage non a caso intitolato “Sick sad scene”, definiva la Burger “a label of self-love”, e la presunta prestigiosa serata una totale "lack of compassion and common sense". Avrei dovuto prestare più attenzione.
Per tornare ai giorni nostri, la prima reazione della Burger dopo le denunce è stata quella di dissociarsi dai musicisti coinvolti pubblicando una lunga e formale dichiarazione, poi di rimuovere i fondatori Sean Bohrman e Lee Rickard da ruoli direttivi. È stata nominata una nuova presidente, Jessa Zapor-Gray che, come prima iniziativa ha deciso di cambiare nome alla label: a quanto pare, la Burger Records ora si chiama BRGR RECS, con una una sotto-label tutta femminile dall'improbabile nome BRGRRRL (quante band di ragazze vorranno farne parte nell'immediato futuro?).
Tra parentesi, è da notare come altre importanti testate, per esempio Pitchfork o Line Of Best Fit, abbiano parlato di questa questa notizia dando spazio soltanto al comunicato della Burger e non alle accuse su IG o alla voce delle vittime.
La reazione della Burger è stata vista con sospetto: il rebranding è sembrato troppo repentino, le scuse di circostanza sono sembrate un copiaincolla PR, l’atteggiamento generale è sembrato più incline a tentare di salvare il salvabile che non a prendere coscienza dei danni causati, né a dare veramente spazio alle ragazze (spesso all'epoca dei fatti ragazzine) vittime di questi musicisti. Capisco certi toni neutri e accomodanti da “ufficio stampa sotto attacco”, ma credo anche che siamo arrivati a un punto in cui le cosiddette “narrazioni tossiche” si estendono anche al politicamente corretto, e siamo tutti ormai abbastanza consapevoli di quanto sia fasullo un certo mood remissivo e conciliante da call center. Possiamo esigere di più, sia da una label che per un lungo periodo è stata considerata la più cool della piccola e sempre più discutibile scena indie, sia da noi stessi, che possiamo imparare ad ascoltare meglio.
In finale, non ho una risposta, né io, maschio bianco etero over40, pretendo davvero di averla, soprattutto ora. La vicenda, immagino, andrà avanti ancora un pezzo. Mi terrò qui nell'archivio la Burger Records e tutte le sue band oggi “impresentabili”, mi terrò i dischi e le cassette, e ogni cosa, ogni parola ormai fuori luogo e ogni canzone all'improvviso antipatica servirà – mi auguro – a far sentire, come in una specie di contrappunto, le voci di tutte quelle ragazze che si sono fatte avanti oggi.
UPDATE della mattina dopo: a quanto pare, Jessa Zapor-Gray non ha ritenuto possibile risollevare le sorti dell'etichetta e ha dato le dimissioni. Sean Bohrman, uno dei due fondatori, ha dichiarato che la Burger Records chiuderà del tutto, togliendo al tempo stesso le uscite dai distributori digitali.
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