Mandatory enjoyment

Dummy - Mandatory Enjoyment

«I’m like, “Man, I wish it was recorded shittier.” In that way we’re dorky. We want to sound bad» (Joe Trainor, da qui).
Ormai l’ho capito: è questo lo spirito che cerco in tutti i dischi che finisco per amare. Ma non si tratta di un espediente semplice o immediato, di una banale scorciatoia. Per riuscire a essere, allo stesso tempo, veramente pop e veramente “shitty” occorre una visione chiara, una necessaria un’attitudine “egoistica” verso la materia musicale che si intende maltrattare.
Prendi i Dummy, per esempio: hanno debuttato con EP folgorante che partiva da suoni Stereolab e aveva una voglia matta di fare festa, poi si sono lanciati in un secondo lavoro più ambient prodotto durante il lockdown e che invece decollava per un centro meditazione dall’altra parte del cosmo. Ora sono arrivati al traguardo del primo album tirando sempre dritto per la propria strada: “sound bad” ma con un patrimonio ricchissimo di riferimenti colti. Propulsioni kraut, organi ossessivi, space age bachelor pad synth, indie rock rumoroso Anni Novanta (perché si citano sempre i Broadcast e mai i Blonde Redhead, quando si parla dei Dummy?), droni ipnotici, jazz intergalattico e tutto un ribollire infinito di bleeps & bloops in cui ogni canzone sembra perennemente immersa. 
Il “sound bad” di questo nuovo Mandatory Enjoyment non è certo un fattore di “bassa qualità”: è più un elemento di urgenza e compattezza che unisce le dodici tracce. Quella dei Dummy è un’abilità non comune che permette di lanciarsi nella quasi sdolcinata call & response di un singolo clamoroso come Daffodils (per non parlare dei cori della travolgente Punk Product #4), ma anche di abbandonarsi al puro piacere “esplorativo”, come in H.V.A.C., tra improvvisazioni e feedback.
Un flusso di caos controllato, i ritmi incalzanti o le derive psichedeliche, i suoni che si depositano strato su strato come anche le pause dilatate e l’assenza di gravità: ogni sostanza dentro questo album trova il proprio equilibrio in mezzo alle altre. Anche le divagazioni quasi new-age come Protostar o Unremarkable Wilderness funzionano come elementi di raccordo e respiro, rispondendo alla perfezione alla coerenza del lavoro, fino a culminare nella chiusura cullante di Atonal Poem. I Dummy hanno confezionato un album capace di sfuggire di continuo al proprio passato, perché il loro grandioso “sound bad” è un impeto sincero che travalica generi e influenze, entusiasmante.

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