It's all so pointless, ah, but it's not though is it?

YARD ACT - THE OVERLOAD

Sono passati quasi due mesi da quando è uscito The Overload, l’album d’esordio degli Yard Act. Per gli attuali ritmi di consumo della musica, sono un’era geologica. Eppure, ora che si è diradata l’esplosione iniziale dell’hype e la trafila della stampa si è già rivolta altrove, mentre la band di Leeds è alle prese con un tour che prevedibilmente la terrà impegnata fino alla fine dell’anno e oltre, continuano a rimbalzarmi in testa frammenti di versi a caso (negli ultimi giorni soprattutto “Standing around, hand in hand, watching the world burn”; subito prima “We all make the samе sound when we get mowеd down”). 
Queste schegge in loop sono conficcate a fondo, insieme alla musica che le ha scagliate: ritmi ostinati, a volte capricciosi, tre note piene di basso, chitarre secche, occasionali rifiniture di synth. A volte può sembrare quasi di essere tornati ai tempi del Big Beat (vedi la clamorosa title track), se solo all’epoca ci fosse stato qualcuno capace di raccontare storie del presente con altrettanto acume; in altri momenti si rinnovano fasti Brit-Pop (certi Blur dentro Payday, o echi di Elastica dentro The Incident, per esempio); e altrove ancora prevalgono forme che spiazzano quelli che (compreso il sottoscritto) erano subito pronto ad applicare anche agli Yard Act una “reduction ad Mark E. Smith”. Tra le strofe, invece, sembra di sentire più volte Eminem, The Streets o anche i Beastie Boys (come nella esplosiva Witness). 
Ma questo profluvio di storie dell’Inghilterra post-Brexit, questo fiume di aneddoti, insolenze e arguzie degni di una leggendaria notte al pub, questa inclinazione per il ritratto satirico (che trova il suo culmine nella biografia esemplare di Tall Poppies), si condensa in parole taglienti e versi che sono meccanismi perfetti (“The overload of discontent / The constant burden of making sense / It won’t relent, it won't repent”). E sono questi che mi restano inchiodati nella nuca e immagino saranno ancora lì quando si tratterà di ricordare quali sono stati i dischi più importanti di questo 2022, con o senza hype. 
Merito prima di tutto del frontman James Smith, uno che per flow e delivery meriterebbe recensioni su magazine rap, ma che per attitudine e sagacia viene catalogato sotto l’ampia e accogliente voce Post-Punk. Merito anche della filosofia che sembra informare il suo approccio alla musica, ben riassunta in questa citazione da un’intervista a Rumore: «Sono un convinto anticapitalista intrappolato in una struttura sociale che mi comanda di fare soldi per sopravvivere […] Penso che, più di ogni altra cosa, questo album sia un messaggio rivolto a me stesso, per ricordarmi di non perdere il senso di chi sono e di quello in cui credo».
Ma se è un amaro senso dell’umorismo che domina le canzoni di The Overload, gli Yard Act tengono per ultima la loro canzone più sorprendente: 100% Endurance chiude l’implacabile scaletta e scintilla di una commossa disillusione degna di James Murphy e dei suoi LCD Soundsystem. L’alcolico racconto del primo contatto con gli alieni, la scoperta che nemmeno loro hanno un’idea del perché sono al mondo, sembra qualche scherzo di Vonnegut, un’idea del Marvin di Douglas Adams: “It's all so pointless / It is and that's beautiful, l find it humbling, sincerely”. E tutto alla fine esplode, perché dentro questo beat incalzante e questo malinconico piano elettrico, siamo capaci di infinita bellezza e fallimenti assoluti, abbagli e illusioni, saggezza da ultimo giro a banco e amore, accidentale, involontario, smisurato amore. 

It's all so pointless, sure is
And when you're gone
It makes me stronger knowing
That this will all just carry on
With someone else 
Something new 
It's not like there's going to be nothing is it?
 

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