Step by step I see myself surrender

 
LIFEGUARD

Capisci di avere un blog da troppo tempo quando ti ritrovi a scrivere entusiasta di band in cui suonano musicisti che sono figli di altri musicisti che suonavano in altre band di cui avevi scritto entusiasta un paio di decenni fa, o giù di lì. 
Prendi Asher Case, per esempio, il giovane bassista dei Lifeguard di Chicago: suo padre Brian era il chitarrista dei Ponys, che su queste pagine e su queste frequenze erano parecchio amati e suonati, e di cui ricordo con molto affetto un concerto non proprio fortunato al Covo Club nel 2007 (ah, quella gloriosa stagione In The Red Records). Aggiungiamo pure che, in precedenza, Brian Chase aveva fondato i 90 Day Men, in seguito è stato nei Disappears e ora suona nei FACS, accasati su Matador: un curriculum notevole.
Proprio la storica label di New York ha da poco annunciato anche la prossima uscita dei Lifeguard, una coppia di EP (il primo già uscito l'estate scorsa) uniti per formare un album Crowd Can Talk + Dressed In Trenches.
Lifeguard - Crowd Can Talk + Dressed In Trenches
La raccolta rappresenta bene il suono assordante e angolare dei Lifeguard, saturo di chitarre lancinanti e ritmi frantumati, e che richiama spesso paragoni con Mission Of Burma, Unwound, Hüsker Dü oppure, per aggiungere un nome più contemporaneo, i Preoccupations. In realtà, a questi ragazzi non sembra interessare troppo il passato o il comprensibile hype che li circonda, e proprio come le loro coetanee Horsegirl non mancano occasione di citare o condividere un palco con qualche altra band della loro città e della loro scena (non per niente il batterista dei Lifeguard, Isaac Lowenstein è proprio il fratello minore della cantate e chitarrista delle Horsegirl, Penelope).
“Più che dai vecchi dischi – prima di quello e prima di tutto – siamo influenzati dai live e dalle persone intorno a noi”, spiega il cantante e chitarrista Kai Slater. "L'ispirazione per noi viene dal fare concerti con queste persone e dalla sensazione strabiliante di vedere alcuni amici suonare allo Schubas o al Book Club", ribadisce Lowenstein. Una scena ben rappresentata dalla esuberante fanzine Hallogallo, traboccante un'attitudine davvero ammirevole, e dai vari eventi che promuove.

Kai Slater, dal canto suo, non sembra il tipo da sedersi sugli allori per via del nuovo e promettente contratto, tutto il contrario. Oltre ai Lifeguard e al  progetto Dwaal Troupe insieme a Charlie Johnston dei Post Office Winter, con cui scrive canzoni - ora fragorose, ora più introverse - che starebbero bene nel catalogo Elephant 6 (vedi l'ultimo album Lucky Dog), Kai Slater produce musica per conto proprio con il nome Sharp Pins. La sua nuova cassetta porta il titolo di Turtle Rock e racchiude 13 tracce di ottimo indie rock. Il suono è quasi sempre sporco, fuzzy e lo-fi (Still A Straw Man), ma l'atmosfera è calda e morbida, rivelando spesso una dolcezza inaspettata (Oh! A Good Friend). C'è un'aria Sixties in queste melodie come se i Byrds o i Left Banke fossero venuti dopo Elliott Smith e i Guided By Voices (il magnifico singolo You Turned Off The Light oppure Bye Bye Basil). In alcuni momenti mi ha fatto tornare in mente certe cose dei Car Seat Headrest, ma senza l'irruenza poetica di un Will Toledo, anzi con una propensione ad abbandonarsi dentro il suono quasi psichedelica. Un album che scorre con grandissima leggerezza e che ti lascia la voglia di rimetterlo dall'inizio ogni volta.
Se qualcuno sta ancora cercando nuove generazioni indie rock, uno dei luoghi da cui partire oggi sembra proprio essere Chicago.





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