C'è un ragazzo nato a Londra, che ha vissuto a Siena e a Roma, che suona la batteria ma che ama anche scrivere canzoni e cantare, e che magari avete già visto accompagnare dal vivo alcuni dei progetti più interessanti nati in Italia negli ultimi tempi: da Koko Moon ad Adult Matters, da Orelle a Vera di Lecce, da Kostja a Simmcat. Lui si chiama Anton Sconosciuto, che è già un nome d'arte perfetto, e ora ha finalmente pubblicato il suo album d'esordio, To Make Room, uscito in CD e cassetta per Coypu Records. Dieci canzoni così sorprendenti (e che sorprendono soprattutto perché arrivano da un artista italiano) che ho pensato fosse necessario andare a conoscerlo meglio con una bella intervista.
Prima di cominciare a parlare di questo disco e a spiegare meglio chi è Anton Sconosciuto, ho voglia di farti una domanda preliminare, una specie di teaser all’intervista stessa, perché mi incuriosisce il fatto che il tuo disco di esordio si apra con una canzone che sostanzialmente parla di insoddisfazione (“Everytime we have fun / It's not enough”) e del desiderio di sentire e avere qualcosa di più. Mi chiedo se sia un modo per mettere in chiaro da subito la tua personalità, di descrivere una scintilla che ha acceso la tua scrittura e di affermare la decisione di “nascere” come artista con questa tua prima opera.
Ciao Enzo, ciao a tutti! Questa prima domanda mi rende molto felice, perchè centra un punto fondamentale del mio percorso personale e artistico degli ultimi anni, e che mi ha poi portato alla scrittura di questo disco e alla nascita del progetto. Come dici, ho lottato molto contro un forte senso di insoddisfazione e a tratti quasi di resa per vari motivi: da un lato, una grande difficoltà a gestire la "competizione" con i miei colleghi musicisti nei primi momenti in cui mi sono affacciato alla parte più lavorativa della musica, dall'altro la stasi e sospensione creata dalla pandemia; dall'altro, ancora un'indole personale che mi porta ad essere sempre alla ricerca di un qualcosa in più, creandomi una difficoltà nell'accettare ed apprezzare ciò che ho e facendomi focalizzare su ciò che potrei avere (problema peraltro che valuto come generazionale e strettamente legato alla cultura social).
Live in Your Eyes, che è la traccia d'apertura del disco che hai citato, è un po' un inno allo stare nel presente, un mantra che ho provato a crearmi da solo, per ricordarmi che solo apprezzando al massimo il presente si può continuare a costruire il proprio futuro con la stabilità giusta.
Per esprimere questo concetto ho cercato di tornare col pensiero a qualche anno fa, quando, insieme a due carissime amiche passavamo pomeriggi sul divano a parlare di musica e a scrivere, senza pensare a cosa sarebbe servita, se qualcun altro l'avrebbe mai ascoltata, sviluppandoci artisticamente senza sovrastrutture o ambizioni inutili, ponendo però, col senno di poi, le basi per le nostre future carriere, che in quel momento non sapevamo dove sarebbero andate, ma in cui ponevamo cieca fiducia priva di aspettative (When we sat on that couch / Years ago / Waiting something more / We knew it would come).
La cosa che mi rende più felice di questo disco è che, come per Live in Your Eyes, ogni brano è stato in sé un grande percorso di autoanalisi, che mi ha portato a districare tanti aspetti della mia personalità che avevano bisogno di essere messi a fuoco e sviluppati, metterli su carta e all'interno di brani che sento rappresentarmi a pieno ha avuto un effetto estremamente curativo. Per riassumere, penso che chi non mi conosce possa già capire molto di me solo dalla lettura dei miei testi.
Ok, ricominciamo dall’inizio, visto che hai una già lunga e brillante carriera anche prima di questo album, con credits sparsi in tanti altri dischi e parecchi tour ormai alle spalle, ci puoi raccontare un po’ di te musicista e da dove proviene Anton Sconosciuto?
Diciamo che prima di tutto sono un batterista accanito. Passare la mia vita a suonare il mio strumento e farlo di lavoro sono obbiettivi che ho marcati a fuoco in testa probabilmente già dalla fine delle scuole elementari. Dalla prima volta che ho visto la batteria di mio nonno (che per mia grande fortuna come hobby era un batterista jazz) ho letteralmente perso il lume della ragione ed ho provato (per chissà quale motivo, forse destino, forse caso) una gioia immensa nel colpire con un pezzo di legno dei tamburi e dei piatti, facendo un casino incredibile. Da questo istinto primario e piuttosto animalesco è derivato l'interesse per la musica e da lì tutte le influenze che mi hanno portato ad affinare il mio modo di suonare in un certo modo, ad amare certe sonorità più di altre, a studiare batteria a livello accademico e, infine, anche a comporre.
A parte tutto, però, ciò che amo profondamente è essere un batterista. Un batterista però forse un po' inusuale, con un grande interesse per l'arrangiamento e la cura del suo posizionamente all'interno della musica. Penso questo derivi da anni di ascolto di generi, come tutta la musica derivante dai Sixties, da Beatles e Beach Boys, e dalla scena Brit, in cui la batteria fa parte di un insieme e di una sonorità di gruppo, fatta di tanti piccoli incastri in cui ogni componente fa il suo rispettando un obbiettivo sonoro comune.
Oltre a questo, essere cresciuto a Siena, città che ospita l'Accademia Siena Jazz, mi ha portato a studiare batteria in un ambiente eccellente e soprattutto costantemente stimolante, che mi ha fatto andare molto in profondità per quanto riguarda la tecnica, l'ascolto, la gestione del suono d'insieme, nonostante poi il jazz non fosse assolutamente il mio genere preferito e anzi, suonarlo mi mettesse molto spesso in difficoltà. Penso però che la tipologia di musicista che mi ritrovo ad essere adesso derivi da una grande mescolanza di ascolti e, perchè no, proprio dalle situazioni scomode in cui mi sono trovato a suonare, che, come spesso accade nella vita, sono forse quelle che maggiormente hanno fatto apparire la mia vera essenza artistica.
Visto il tuo lungo ed eterogeneo curriculum, viene quasi spontaneo chiedersi in che modo tutte le tue collaborazioni passate e presenti influenzano l’Anton Sconosciuto musicista solista? E come è stato, a tua volta, avere dei collaboratori per questo tuo album?
Sicuramente ciò che ha più influito sul mio modo di suonare e comporre sono state le comunità di musicisti in cui mi sono ritrovato immerso. Inizialmente, nella mia adolescenza senese, ho incontrato musicisti più grandi che mi hanno aperto la strada verso gli ascolti che ho citato prima, da Lennon/McCartney a Damon Albarn e le sue milioni di formazioni, successivamente, in ambito accademico (a Siena, appunto, ed Amsterdam) ho conosciuto tantissimi artisti di estrazioni culturali e musicali diverse, che sono di fatto la stragrande maggioranza dei musicisti con cui tutt'ora collaboro. Da loro ho imparato la flessibilità, a non aver paura di esprimersi in un modo che va controcorrente e a non nascondermi dietro ad etichette relative ad un genere musicale di riferimento. La pratica dell'improvvisazione e una personale ricerca timbrica e sonora mi hanno aperto gli occhi verso il mondo della sperimentazione, che da incomprensibile e quasi odiabile, è diventata sempre di più fonte di interesse e ammirazione. Oltre a questo, la volontà di lanciarmi sempre in qualsiasi situazione musicale che mi volesse al suo interno mi ha fatto imparare tantissimo, sia come batterista che come compositore (oltre a farmi a volte capire cosa NON fare).
Penso che da soli si possano capire molte cose, ma non ho mai imparato tanto quanto aprendo gli occhi e le orecchie nella direzione di chi stava suonando e creando intorno a me. Scambierei volentieri ogni lezione di batteria che mi sia mai stata impartita con uno qualsiasi dei concerti che ho visto fare a colleghi che ammiro negli ultimi anni.
Rispetto all'Anton Sconosciuto da solista, penso (e spero) che sia quanto più possibile una fedele e sincera rappresentazione di ciò che sono, artisticamente e non, e dunque tutte le influenze dette sopra sono parte integrante del progetto. Devo ammettere che in fase di produzione sono abbastanza maniacale, scrivo e arrangio tutto io, sottoponendo poi ai musicisti che suonano con me delle partiture che di rado modifico. Ma comunque, anche in quel frangente, far passare la mia musica attraverso un filtro esterno, composto da amici e colleghi fidati è di fondamentale importanza, già prima di collaborare con loro anche in fase di registrazione, momento in cui possono travalicare senza difficoltà i miei limiti tecnici quando si tratta di suonare strumenti che non mi competono. Nel disco potete ascoltare Vittoria Dato, Konstantin Gukov, Giovanni Miatto, Andrea Bambini e Dominika Kaczmarczyk, tutti musicisti pazzeschi da tenere d'occhio.
Diciamo che prima di tutto sono un batterista accanito. Passare la mia vita a suonare il mio strumento e farlo di lavoro sono obbiettivi che ho marcati a fuoco in testa probabilmente già dalla fine delle scuole elementari. Dalla prima volta che ho visto la batteria di mio nonno (che per mia grande fortuna come hobby era un batterista jazz) ho letteralmente perso il lume della ragione ed ho provato (per chissà quale motivo, forse destino, forse caso) una gioia immensa nel colpire con un pezzo di legno dei tamburi e dei piatti, facendo un casino incredibile. Da questo istinto primario e piuttosto animalesco è derivato l'interesse per la musica e da lì tutte le influenze che mi hanno portato ad affinare il mio modo di suonare in un certo modo, ad amare certe sonorità più di altre, a studiare batteria a livello accademico e, infine, anche a comporre.
A parte tutto, però, ciò che amo profondamente è essere un batterista. Un batterista però forse un po' inusuale, con un grande interesse per l'arrangiamento e la cura del suo posizionamente all'interno della musica. Penso questo derivi da anni di ascolto di generi, come tutta la musica derivante dai Sixties, da Beatles e Beach Boys, e dalla scena Brit, in cui la batteria fa parte di un insieme e di una sonorità di gruppo, fatta di tanti piccoli incastri in cui ogni componente fa il suo rispettando un obbiettivo sonoro comune.
Oltre a questo, essere cresciuto a Siena, città che ospita l'Accademia Siena Jazz, mi ha portato a studiare batteria in un ambiente eccellente e soprattutto costantemente stimolante, che mi ha fatto andare molto in profondità per quanto riguarda la tecnica, l'ascolto, la gestione del suono d'insieme, nonostante poi il jazz non fosse assolutamente il mio genere preferito e anzi, suonarlo mi mettesse molto spesso in difficoltà. Penso però che la tipologia di musicista che mi ritrovo ad essere adesso derivi da una grande mescolanza di ascolti e, perchè no, proprio dalle situazioni scomode in cui mi sono trovato a suonare, che, come spesso accade nella vita, sono forse quelle che maggiormente hanno fatto apparire la mia vera essenza artistica.
Visto il tuo lungo ed eterogeneo curriculum, viene quasi spontaneo chiedersi in che modo tutte le tue collaborazioni passate e presenti influenzano l’Anton Sconosciuto musicista solista? E come è stato, a tua volta, avere dei collaboratori per questo tuo album?
Sicuramente ciò che ha più influito sul mio modo di suonare e comporre sono state le comunità di musicisti in cui mi sono ritrovato immerso. Inizialmente, nella mia adolescenza senese, ho incontrato musicisti più grandi che mi hanno aperto la strada verso gli ascolti che ho citato prima, da Lennon/McCartney a Damon Albarn e le sue milioni di formazioni, successivamente, in ambito accademico (a Siena, appunto, ed Amsterdam) ho conosciuto tantissimi artisti di estrazioni culturali e musicali diverse, che sono di fatto la stragrande maggioranza dei musicisti con cui tutt'ora collaboro. Da loro ho imparato la flessibilità, a non aver paura di esprimersi in un modo che va controcorrente e a non nascondermi dietro ad etichette relative ad un genere musicale di riferimento. La pratica dell'improvvisazione e una personale ricerca timbrica e sonora mi hanno aperto gli occhi verso il mondo della sperimentazione, che da incomprensibile e quasi odiabile, è diventata sempre di più fonte di interesse e ammirazione. Oltre a questo, la volontà di lanciarmi sempre in qualsiasi situazione musicale che mi volesse al suo interno mi ha fatto imparare tantissimo, sia come batterista che come compositore (oltre a farmi a volte capire cosa NON fare).
Penso che da soli si possano capire molte cose, ma non ho mai imparato tanto quanto aprendo gli occhi e le orecchie nella direzione di chi stava suonando e creando intorno a me. Scambierei volentieri ogni lezione di batteria che mi sia mai stata impartita con uno qualsiasi dei concerti che ho visto fare a colleghi che ammiro negli ultimi anni.
Rispetto all'Anton Sconosciuto da solista, penso (e spero) che sia quanto più possibile una fedele e sincera rappresentazione di ciò che sono, artisticamente e non, e dunque tutte le influenze dette sopra sono parte integrante del progetto. Devo ammettere che in fase di produzione sono abbastanza maniacale, scrivo e arrangio tutto io, sottoponendo poi ai musicisti che suonano con me delle partiture che di rado modifico. Ma comunque, anche in quel frangente, far passare la mia musica attraverso un filtro esterno, composto da amici e colleghi fidati è di fondamentale importanza, già prima di collaborare con loro anche in fase di registrazione, momento in cui possono travalicare senza difficoltà i miei limiti tecnici quando si tratta di suonare strumenti che non mi competono. Nel disco potete ascoltare Vittoria Dato, Konstantin Gukov, Giovanni Miatto, Andrea Bambini e Dominika Kaczmarczyk, tutti musicisti pazzeschi da tenere d'occhio.
Arriviamo quindi a To Make Room: il comunicato stampa che presenta il disco spiega che dobbiamo prestare attenzione al doppio significato della frase del titolo, perché queste canzoni rappresentano il creare e prenderti un tuo spazio, ma c’entrano anche letteralmente con una serie di stanze in città diverse: puoi tracciare una specie di Google Maps nelle tappe della tracklist?
Certo! Come hai detto bene, To Make Room significa letteralmente "fare spazio", ma in questo caso può anche simboleggiare la letterale creazione di una stanza, fisica e mentale. Oltre ad aver scritto e registrato il disco in tantissimi luoghi e stanze diverse (infatti la registrazione in studio rappresenta una fetta ristretta nei metodi di recording di questo disco), come detto in precedenza, questi brani mi hanno permesso di costruirmi delle nuove stanze mentali, fatte di nuove consapevolezze riguardo a varie tendenze e argomenti che ho cercato di affrontare negli ultimi tempi.
Più materialmente, però, la produzione del disco è letteralmente avvenuta grazie ai miei spostamenti, computer, microfoni e scheda audio alla mano, fra le case dei musicisti con cui ho collaborato e che si sono prestati a registrare, molto meglio, le parti che per loro avevo arrangiato. Nel disco quindi passiamo da musica scritta o registrata a Roma, Amsterdam, Leiden, Utrecht, Siena, Pisa, Bologna, Berlino e probabilmente anche in altri posti che ora mi sfuggono.
Più materialmente, però, la produzione del disco è letteralmente avvenuta grazie ai miei spostamenti, computer, microfoni e scheda audio alla mano, fra le case dei musicisti con cui ho collaborato e che si sono prestati a registrare, molto meglio, le parti che per loro avevo arrangiato. Nel disco quindi passiamo da musica scritta o registrata a Roma, Amsterdam, Leiden, Utrecht, Siena, Pisa, Bologna, Berlino e probabilmente anche in altri posti che ora mi sfuggono.
Da sottolineare e citare in questo caso c'è il grandissimo lavoro di mix fatto dal mio caro amico e musicista Alessandro Mazzieri, che ha veramente fatto fiorire il materiale che gli ho sottoposto, è importante dare credito a chi sa far risaltare i contenuti a un tale livello.
Uno dei riferimenti musicali espliciti in questo album è Mac DeMarco: però, mentre è facile associare la musica del cantautore canadese a un mood notturno, fatto di fumo di sigarette e atmosfere languide, mi sembra che il suono di queste tue canzoni, per quanto morbido e caldo, abbia un carattere più luminoso, quasi primaverile, senz’altro più pop - penso soprattutto a tracce come Unsinn, Day Of Sun e What’s Your Name.
Beh, penso che Mac DeMarco stia dietro veramente a tanta musica che esce oggigiorno. Dietro il suo fare molto easy e a tratti apparentemente raffazzonato, credo si possa ormai dire che si celi un artista che ha fatto scaturire una vera rivoluzione nel mondo pop e non solo, in quanto a suono ed estetica. Sono d'accordo sul fatto che ci siano delle differenze di mood nei miei brani, e trovo molto affascinante che in te scaturiscano una sensazione più luminosa, in quanto in realtà come argomenti e testi, nei miei brani ci sia sicuramente più oscurità ed introspezione rispetto a DeMarco, almeno secondo me. Magari potremo approfondire cosa scaturisce questa sensazione davanti a una birra, ma ciò che ne traggo in questo momento è una conferma del fatto che ci sia un forte contrasto fra la sonorità musicale dei miei brani ed il significato dei testi. Questo penso sia dovuto alla forte separazione che opero in fase compositiva fra scrittura ed arrangiamento della musica, che avviene sempre in una fase precedente, e scrittura dei testi, che vado ad 'incollare' ad una base musicale già esistente.
Diciamo che la prima di queste due fasi la sento come uno svago molto più irrazionale ed emotivo, che mi aiuta a tirare fuori sotto forma di suono un qualcosa di più profondo e non realmente esprimibile a parole, mentre la seconda è molto più riflessiva e autoanalitica. Questa separazione, che la tua domanda mi ha fatto interessantemente notare, penso derivi proprio da questo processo di scrittura.
Beh, penso che Mac DeMarco stia dietro veramente a tanta musica che esce oggigiorno. Dietro il suo fare molto easy e a tratti apparentemente raffazzonato, credo si possa ormai dire che si celi un artista che ha fatto scaturire una vera rivoluzione nel mondo pop e non solo, in quanto a suono ed estetica. Sono d'accordo sul fatto che ci siano delle differenze di mood nei miei brani, e trovo molto affascinante che in te scaturiscano una sensazione più luminosa, in quanto in realtà come argomenti e testi, nei miei brani ci sia sicuramente più oscurità ed introspezione rispetto a DeMarco, almeno secondo me. Magari potremo approfondire cosa scaturisce questa sensazione davanti a una birra, ma ciò che ne traggo in questo momento è una conferma del fatto che ci sia un forte contrasto fra la sonorità musicale dei miei brani ed il significato dei testi. Questo penso sia dovuto alla forte separazione che opero in fase compositiva fra scrittura ed arrangiamento della musica, che avviene sempre in una fase precedente, e scrittura dei testi, che vado ad 'incollare' ad una base musicale già esistente.
Diciamo che la prima di queste due fasi la sento come uno svago molto più irrazionale ed emotivo, che mi aiuta a tirare fuori sotto forma di suono un qualcosa di più profondo e non realmente esprimibile a parole, mentre la seconda è molto più riflessiva e autoanalitica. Questa separazione, che la tua domanda mi ha fatto interessantemente notare, penso derivi proprio da questo processo di scrittura.
E dato che stiamo giocando al gioco dei paragoni, quella specie di Indovina Chi che inevitabilmente si porta dietro ogni disco, ho davvero apprezzato che tra le tue influenze citi due nomi non così comuni e scontati in Italia come Andy Shauf e i Little Joy, entrambi, anche se in maniera diversa, capaci di creare un loro mondo sonoro riconoscibile sin dalla prima nota. Se posso aggiungerne un altro, mi è sembrato che dentro To Make Room si possa ritrovare anche qualcosa di Chris Cohen, sia per certe sfumature jazz, sia per il tuo modo di cantare che sembra sempre così rilassato e sorridente.
Devo ammettere che da quando ho iniziato a far uscire musica a nome mio sono sempre stato paragonato, oltre che agli artisti che da solo cito fra le mie influenze, come appunto Andy Shauf e Little Joy (che mi hanno un po' cambiato la vita musicalmente parlando), a molti artisti che non ho mai ascoltato molto. E' il caso anche di Chris Cohen, che conosco e apprezzo, ma la cui musica non ho sinceramente approfondito. Anche questo mi affascina e mi rende molto felice. Da una parte perchè essere avvicinato a grandi artisti è sempre un onore, dall'altra perchè essere paragonato a musicisti che in realtà non fanno parte in modo fisso del mio panorama d'ascolti mi indica e conferma che per certi aspetti ho centrato con la mia musica un territorio che esce dal campo dell'imitazione, proponendo un qualcosa che, ovviamente avendo delle influenze a me molto chiare, vira in una direzione di autenticità. Quindi ti ringrazio per la suggestione e, come sempre, ne faccio tesoro, aggiungendo Chris Cohen alla lista di artisti da approfondire assolutamente.
E a un musicista che sa scegliere in maniera così accurata e raffinata i suoni per dare corpo alla propria scrittura, faccio invece un’ultima domanda sulle parole. Le strofe di queste canzoni catturano momenti e scene in una maniera quasi impressionista, da istantanea, molto immediata ma anche molto suggestiva. Quanto tempo dedichi ai testi delle canzoni e come nascono? Se le storie di questo disco fossero un libro, cosa scriveresti sul riassunto in quarta di copertina?
Wow, intanto grazie per il grande complimento. Come detto in precedenza, le parole si aggiungono sempre in modo successivo alla musica. Non è tanto un qualcosa che faccio per dare più importanza all'uno o all'altro aspetto, quanto una prassi che ho imparato dai primi momenti in cui ho iniziato a scrivere musica e che per me sembra funzionare. Non escludo di sperimentare con il processo inverso, sono sicuro che potrebbe portare a risultati molto diversi e senza dubbio interessanti.
Premesso questo, il processo con cui scrivo i testi è molto simile a quello con cui scrivo la musica, dunque fortemente istintivo. Mi capita molto poco spesso di rimuginare tanto sulla composizione o sulla scrittura, è come se percepissi nettamente il momento giusto per scrivere un brano o un testo e, quasi senza eccezioni, nel giro di poco tempo lo completo di getto. Sembra un processo fin troppo semplice ma per qualche motivo per me funziona così. Capita dunque spesso che scriva la parte musicale di un brano, con tanto di melodia per la voce priva di senso compiuto, e lo lasci lì, quasi in lievitazione, per molto tempo, addirittura a volte mesi. Poi di punto in bianco è come se un'immagine mi si creasse in testa, in seguito a un evento o a un ragionamento (sempre in modo connesso al processo di profonda autoanalisi di cui ho parlato prima), e automaticamente la andassi ad accoppiare con una delle idee musicali incompiute che ho in cantiere in quel determinato periodo. E' un modus operandi molto naturale e che apprezzo, perchè in qualche modo mi evita del tutto la scrittura di testi che non siano direttamente collegati alla mia vita ed esperienza giornaliera e quindi completamente sinceri e spontanei.
È importante citare come non tutti i testi li abbia scritti da solo. Il rapporto con Vittoria, seconda voce del disco, anche lei una bravissima cantautrice, è stato molto importante nello sviluppo del mio metodo di scrittura. Peraltro lei ha scritto di proprio pugno il testo di ‘Tides’ e abbiamo scritto insieme ‘What’s your name?’. Mi ha dato una grande mano nella prima fase di scoperta di un metodo personale di scrittura, facendomi capire l’importanza del creare suggestioni che possano essere di facile presa per chiunque, immagini chiare che possono anche rivelarsi metaforiche. La capacità di esprimere questi momenti e scene impressionistiche di cui parli deriva sicuramente da una ricerca svolta con il suo aiuto.
Le storie di questo disco parlano di un ragazzo sulla ventina che si racconta cercando di incrementare la proprio stabilità d'animo entrando a contatto con le difficoltà giornaliere della vita, che forse proprio a quest'età iniziano a palesarsi con più violenza, scoprendo pian piano sempre più cose di se stesso e di come funziona ciò che lo circonda, dalle relazioni, alle emozioni, alle questioni più materiali. Il fatto che quel ragazzo sia proprio io non fa che dare una garanzia di autenticità, rafforzata dal fatto che dietro a questo approccio non c'è stata una scelta ma solo una naturale conseguenza del mio essere.
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