Lungo questi mesi di "content nausea" (cit.), in cui non ho più aggiornato questo blog come ai vecchi tempi, ci sono stati dischi che mi hanno tenuto compagnia e che sono stati a loro modo importanti nel corso di queste stagioni. Ora che qui intorno cominciano a comparire le prime classifiche dei dischi di fine anno, mi guardo indietro e mi dispiace non avere dato a tutta questa fantastica musica lo spazio che ha meritato. In questa tardiva domenica da interminabile “indian summer” provo a recuperare qualche nome, in un parziale e maldestro tentativo di restare al passo con le mie stesse attese.
Comincio dalla infaticabile e poliedrica Circa Diana (forse proprio per cercare di darmi implicitamente una svegliata), perché nei mesi scorsi la label di Riccione ha fatto uscire uscire due dischi davvero notevoli. Cosa è è il nuovo album di Lennard Rubra e contiene dieci canzoni di “sentimentalismo dèmodé ed episodi di pop disforico con echi di liscio romagnolo”. In realtà, anche questa tempestosa descrizione non rende del tutto giustizia a questa scrittura febbrile, in cui si mescolano Velvet Underground e canzonette Anni Sessanta, allucinazioni Panda Bear e stucchevoli lenti da balera “demodé” (per usare un altro concetto caro a Lennard Rubra). Il risultato è tanto stridente quanto affascinante: tutto sembra sempre sul punto di crollare e al tempo stesso correre a perdifiato verso un impossibile ricomposizione, in cui la musica potrebbe anche farti credere di poter curare ogni ferita (Erotomania). Prevale poi una disperazione beffarda (Madonna quante stronzate oppure le istantanee comiche di Tostopoli o di Pareidolie di Romagna) che però al suo centro - e al centro anche della scaletta, non a caso - custodisce una domanda sincera e costante: Ma chi cazzo è Lennard Rubra?, che ho il sospetto non troverà risposta presto (per nostra fortuna).
Ideale compagno del disco appena citato, è Nonsenso Su Canzoni, seconda opera di Tristram. Un’altra raccolta in cui la voglia di sperimentare sembra voler tornare a casa abbracciando un ideale pop ma finendo per travolgere poi ogni cosa: rock e cantautorato, scherzi e meta-canzoni. Tristram a volte sembra preferire un gioco di sottrazioni, affidandosi a loop e campionamenti, poi tutto può esplodere all’improvviso e schegge impazzite volano in ogni direzione. Questo disco non vuole offrirti molti appigli, diventa necessario lasciarsi traportare da un flusso di coscienza parecchio loquace, in cui tutto si mescola, alto e basso, sofisticate reticenze e cassa dritta, linguaggio aulico e disillusa autoanalisi. “Ho scritto canzoni d'amore e d'odio senza preoccuparmi di dare una progettualità o un senso a quello che stavo facendo. Il risultato di questa condotta scellerata ed egoista é questo disco”: spiega Tristram. Per completare il quadro, mi permetto di aggiungere soltanto una strofa che appare e scompare fugace tra le righe di quella specie di sbrigativa samba che chiude l’album (ma non giurerei che si tratti di qualche sorta di impossibile conclusione o morale da trarre): “umori scomodi che non vorresti che non vorresti provare / e allora suona, figlio mio suona forte / così che ogni piccolo rumore possa riempire il tuo cuore”.
Giunto ormai al traguardo del terzo lavoro a nome Grand Drifter, credo si possa ormai aggiungere il nome di Andrea Calvo alla lista di quei cantautori che in Italia non ci meritiamo: nel suo pop elegante e leggero si possono leggere in maniera limpida influenze come Belle and Sebastian o Kings Of Convenience, giusto per restare sulla superficie delle cose, e già dalle prime note sai che tornerai a domandarti perché la nostra scena musicale, persa nella propria idiomatica autoreferenzialità, non sembri capace di accogliere e concepire questo splendido indiepop nella maniera che gli spetta. Paradise Window è un disco magnifico, che potevi goderti tanto una notte d’estate tornando verso casa in macchina, guidando piano con i finestrini abbassati e canticchiando sovrappensiero, quanto apprezzare in un pomeriggio di fine autunno, tra un divano e una tazza di tè, incontro al tramonto che arriva sempre più presto. Chitarra acustica, melodie morbide e tocchi di malinconici pianoforti appena sfiorati. Come aveva sintetizzato bene Daggerzine, “somewhere right square in the middle of where the Sarah labels meets el’ records (if you know what I mean)”. Poi leggi il comunicato stampa dell’album e ti spieghi molte altre cose: “l’orgogliosa rivendicazione della gentilezza e della sensibilità individuale è al centro di questa poetica”. Va bene, lasciateci qui: se esiste realmente quella categoria citata ormai soltanto da certi ex blogger di mezza età dei “dischi-rifugio”, o forse dei dischi tipo “coperta di Linus”, Paradise Window vi rientra a pieno titolo, e con una qualità e una purezza che lasciano incantati.
Ginevra Fenoglio è giovanissima, è nata l’anno in cui è uscito In Circolo dei Perturbazione (dacci oggi il nostro wanna feel old? quotidiano), disco a cui lei racconta di essere molto legata. Proprio Marco Milanesio - all'epoca fonico della storica band piemontese - l’ha aiutata a registrare questo suo disco d’esordio, If I’m Not Loving You, uscito con il nome d’arte Ginny: vedi come a volte, anche in queste piccole storie musicali, tutto alla fine torna. Non mi capita spesso di ascoltare molte cantautrici che, soltanto con chitarra e voce (qui poco altro: un contrabbasso, una marimba, una chitarra elettrica aggiunta niente meno che da Paolo Spaccamonti), raccontano e mettono a nudo sentimenti con tanta sincerità, senza filtri, ripensamenti e senza nascondersi dai propri errori. In queste canzoni c’è tanto Sufjan Stevens, e c’è anche tanto di quella nuova leva di cantautrici americane tipo Lomelda, Tomberlin o Florist. C’è un linguaggio a prima vista classico, indie folk o come volete chiamarlo, ma c’è anche tutta un'aria fresca e nuova portata da una giovane ragazza che prova a spiegarsi questo stupefacente stare al mondo, soffrire, amare, conoscere. Ed è uno stupore, anche per me, ogni volta che questo racconto ricomincia. Crediamo di sapere già tutto da una vita, ma le piccole canzoni di Ginny ti mostrano come tutto, al contrario, è sempre e ancora da scoprire.
A volte senti il bisogno di certe chitarre Teenage Fanclub e melodie distese, ma poi ti rendi conto che la band scozzese suona un po’ troppo dolce e scintillante per te. Se è il momento chiudere la giornata su una nota malinconia, senza rinunciare ai feedback e ai riverberi, l’ultimo disco dei Suncharms, da Sheffield, è quello che fa al caso tuo (o, quanto meno, al mio). I primi due EP trent’anni fa, l’album d’esordio nel 2021 (l’ottimo Distant Lights) e ora questo nuovo Things Lost, pubblicato niente meno che dalla storica label Sunday Records di Chicago. Tra chitarre cinematografiche, suoni pieni e ciondolanti (vedi Satanic Rites oppure Daylight Is Here, davvero commoventi), una certa indolenza che non sarebbe dispiaciuta ai migliori Pastels rendono questo suono per me senza tempo, un po’ come se qualcuno volesse aggiungere un po’ più d’amore ai migliori Jesus & Mary Chain. La perfetta unione tra il carattere più ruvido e abrasivo di queste chitarre per noi vitali e necessarie, e l’inquietudine che ti resta addosso per il tempo che passa anche quando non vuoi accorgertene. Things Lost, cose perdute che ancora stringo tra le mani.
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