Secondo la All Music Guide, tra anni Ottanta e Novanta l’etichetta “bassa fedeltà” è passata dall’essere una semplice descrizione della qualità di registrazione di un disco a indentificare un intero genere a sé stante. Si citano i classici nomi di band dell’underground americano come Beat Happening e R.E.M, o della label neozelandese Flying Nun, che hanno abbracciato questa estetica fatta di registrazioni casalinghe e approssimative, immancabili fruscii, testi astratti o stravaganti, canzoni dalla struttura libera e sperimentazione fino al puro rumore. Ma perché, a un certo punto, questo approccio così indipendente, diverso e scomodo è diventato importante? E perché è diventato importante anche per noi ascoltatori (o, quanto meno, ascoltatori di una certa nicchia) scoprire e seguire band sempre più marginali, ostiche, sfuggenti e astruse? Cosa accendeva la nostra passione dentro dischi che chiunque altra persona avrebbe definito semplicemente “fatti male” e irrimediabilmente brutti?
Una risposta che all’epoca avremmo potuto dare senza pensarci troppo era perché si trattava proprio di dischi che “non piacevano a nessuno”, che andavano in direzione contraria all’idea mainstream e accettabile di bello e piacevole. Una risposta più consapevole e accademicamente ragionata la trovo ora nel bel saggio di Enrico Monacelli, "Bassa fedeltà. Musica lo-fi e fuga dal capitalismo", pubblicato da NERO. Con invidiabile entusiasmo e altrettanto invidiabile intelligenza, il libro traccia una genealogia del genere lo-fi partendo da Brian Wilson e arrivando fino a certa trap dei giorni nostri. Un primo aspetto molto interessante è che, delineando questa storia, Enrico Monacelli non cerca passaggi di testimone forzati tra una generazione e l’altra, non tenta di indicare uno sviluppo univoco di un’idea di suono come un progresso. Anzi, ogni capitolo apre nuove biforcazioni e innesta ogni nome, che sia quello di Daniel Johnston o di Ariel Pink, su questo albero genealogico aggiungendo nuovi spunti all’indagine.
La tesi che fa da fondamento a tutto il saggio è che “il lo-fi è un metodo radicale di fare arte. È una sovversione pratica della produzione sonora sotto il capitalismo. E questo sabotaggio è, a sua volta, un modo per creare una strana estraneità all’interno della cultura pop, un’interzona selvaggia dove le regole e la normalità capitalista vengono modificate e criticate. Riterrò sempre che il lo-fi sia una rottura pratica di ciò che c’è. Tuttavia, non attribuirò al lo-fi un programma ben definito, poiché la sua stranezza ha molte sembianza e raggiunge le sue caratteristiche specifiche soprattutto in base al modo in cui questo sabotaggio viene effettivamente portato a termine”.
Monacelli svolge il ragionamento mescolando riferimenti musicali e storici con una serrata analisi teorica. Tra gli autori che cita più spesso ci sono Mark Fisher, Felix Guattari, Gilles Deleuze, Guy Debord e Simon Reynolds. Ma ogni musicista viene accolto nel discorso raccogliendo di volta in volta nuove suggestioni. Particolarmente spericolato ma affascinante, in questo senso, è il capitolo dedicato alle Marine Girls, che coinvolge i concetti di “sentimento oceanico” e “sweetweird” per raccontare la posizione praticamente unica della leggendaria formazione britannica.
In sostanza, quell’inseguire più o meno inconsapevole ogni possibile direzione contraria alla corrente musicale e artistica risponde al desiderio di mettere in discussione e sovvertire un sistema culturale conformista che replica strutture di potere come quelle che lo hanno generato. Ciò che ci affascina del lo-fi, in qualunque forma ci si presenta o in cui ci riconosciamo meglio, è il suo messaggio implicito: possiamo riappropriarci dei mezzi di produzione, possiamo scartare dalla normalità ed evadere dal mercato, possiamo creare e lanciare messaggi in codici diversi e nuovi. Ciò che ne esce, probabilmente, non sarà di immediata comprensione (e spesso nemmeno di comprensione differita), ma andrà ad aggiungere un altro strano, bellissimo, a volte tragico e a volte impercettibile, granello di sabbia nell’ingranaggio.
Alla fine di questa lettura, non vorrei sembrare eccessivamente ottimista. Se il lo-fi esprime un sentimento in qualche modo “adolescente”, di questa parola mi tengo stretto il suo essere participio, continuo divenire. Ma mi accorgo anche che riflette una continua e tesa incompiutezza. Una delle osservazioni che mi ha colpito di più nel libro di Monacelli l’ho trovata nella chiusura del capitolo dedicato alla incredibile figura di R. Stevie Moore: “una domanda sembra inevitabile: è sufficiente? […] Come teorici radicali, dobbiamo affrontare sempre lo stesso problema nell’analisi di ogni fenomeno controculturale: il capitalismo è ancora in piedi, dopo tutto. Ciò che appare più chiaro che mai è che, senza un sincero desiderio di lotta comune, qualsiasi fuga dalla normalità è destinata a essere una ricerca inefficace. […] Senza il desiderio di trasvalutare collettivamente tutti i valori di questo mondo, di uscirne veramente, questo sabotaggio è destinato a essere neutralizzato e neutralizzante”.
Una risposta che all’epoca avremmo potuto dare senza pensarci troppo era perché si trattava proprio di dischi che “non piacevano a nessuno”, che andavano in direzione contraria all’idea mainstream e accettabile di bello e piacevole. Una risposta più consapevole e accademicamente ragionata la trovo ora nel bel saggio di Enrico Monacelli, "Bassa fedeltà. Musica lo-fi e fuga dal capitalismo", pubblicato da NERO. Con invidiabile entusiasmo e altrettanto invidiabile intelligenza, il libro traccia una genealogia del genere lo-fi partendo da Brian Wilson e arrivando fino a certa trap dei giorni nostri. Un primo aspetto molto interessante è che, delineando questa storia, Enrico Monacelli non cerca passaggi di testimone forzati tra una generazione e l’altra, non tenta di indicare uno sviluppo univoco di un’idea di suono come un progresso. Anzi, ogni capitolo apre nuove biforcazioni e innesta ogni nome, che sia quello di Daniel Johnston o di Ariel Pink, su questo albero genealogico aggiungendo nuovi spunti all’indagine.
La tesi che fa da fondamento a tutto il saggio è che “il lo-fi è un metodo radicale di fare arte. È una sovversione pratica della produzione sonora sotto il capitalismo. E questo sabotaggio è, a sua volta, un modo per creare una strana estraneità all’interno della cultura pop, un’interzona selvaggia dove le regole e la normalità capitalista vengono modificate e criticate. Riterrò sempre che il lo-fi sia una rottura pratica di ciò che c’è. Tuttavia, non attribuirò al lo-fi un programma ben definito, poiché la sua stranezza ha molte sembianza e raggiunge le sue caratteristiche specifiche soprattutto in base al modo in cui questo sabotaggio viene effettivamente portato a termine”.
Monacelli svolge il ragionamento mescolando riferimenti musicali e storici con una serrata analisi teorica. Tra gli autori che cita più spesso ci sono Mark Fisher, Felix Guattari, Gilles Deleuze, Guy Debord e Simon Reynolds. Ma ogni musicista viene accolto nel discorso raccogliendo di volta in volta nuove suggestioni. Particolarmente spericolato ma affascinante, in questo senso, è il capitolo dedicato alle Marine Girls, che coinvolge i concetti di “sentimento oceanico” e “sweetweird” per raccontare la posizione praticamente unica della leggendaria formazione britannica.
In sostanza, quell’inseguire più o meno inconsapevole ogni possibile direzione contraria alla corrente musicale e artistica risponde al desiderio di mettere in discussione e sovvertire un sistema culturale conformista che replica strutture di potere come quelle che lo hanno generato. Ciò che ci affascina del lo-fi, in qualunque forma ci si presenta o in cui ci riconosciamo meglio, è il suo messaggio implicito: possiamo riappropriarci dei mezzi di produzione, possiamo scartare dalla normalità ed evadere dal mercato, possiamo creare e lanciare messaggi in codici diversi e nuovi. Ciò che ne esce, probabilmente, non sarà di immediata comprensione (e spesso nemmeno di comprensione differita), ma andrà ad aggiungere un altro strano, bellissimo, a volte tragico e a volte impercettibile, granello di sabbia nell’ingranaggio.
Alla fine di questa lettura, non vorrei sembrare eccessivamente ottimista. Se il lo-fi esprime un sentimento in qualche modo “adolescente”, di questa parola mi tengo stretto il suo essere participio, continuo divenire. Ma mi accorgo anche che riflette una continua e tesa incompiutezza. Una delle osservazioni che mi ha colpito di più nel libro di Monacelli l’ho trovata nella chiusura del capitolo dedicato alla incredibile figura di R. Stevie Moore: “una domanda sembra inevitabile: è sufficiente? […] Come teorici radicali, dobbiamo affrontare sempre lo stesso problema nell’analisi di ogni fenomeno controculturale: il capitalismo è ancora in piedi, dopo tutto. Ciò che appare più chiaro che mai è che, senza un sincero desiderio di lotta comune, qualsiasi fuga dalla normalità è destinata a essere una ricerca inefficace. […] Senza il desiderio di trasvalutare collettivamente tutti i valori di questo mondo, di uscirne veramente, questo sabotaggio è destinato a essere neutralizzato e neutralizzante”.
Aspettando la fine del capitalismo, se non altro, ci faranno compagnia i dischi meravigliosi di cui si parla in questo libro.
Commenti
Posta un commento