God only knows what indiepop would be without you

 
Brian Wilson

In questo weekend ci siamo lasciati trascinare di video in video su youtube, di link in link mentre leggevamo ricordi scritti e pubblicati sull’onda dell’emozione, segnalazioni di vecchi articoli e libri che chissà quando avremo tempo di recuperare, riascoltando vecchie canzoni che avevamo dimenticato, altre che forse non conoscevamo, e tante che conoscevamo benissimo ma che non ci stancheremo mai di far ripartire da capo. Personalmente, ho lasciato un cuore, un like, un abbraccio a chiunque abbia scritto o postato qualunque cosa contenente le parole “Brian Wilson”. 
Se esiste un aspetto tutto sommato consolante in questi momenti social di lutto pubblico e condiviso, è che, raccontando la propria canzone preferita, sforzandosi di suggerire contributi originali o meno prevedibili, lanciando in timeline quella foto che nessuno aveva mai visto prima, o quella canzone che ancora non era stata riportata alla luce, insomma, volendo comunque esserci e partecipare, ognuno contribuisce a rafforzare quel legame personale che, un po’ per vanità e un po’ per autentico affetto, ci sentiamo in diritto di avere con certi grandi artisti. 
E davvero Brian Wilson è stato uno dei più grandi, tanto che parlare soltanto di affetto o riconoscenza quando si considera il suo ruolo nella storia della musica sembra quasi riduttivo. Il suono che ha immaginato per tutta la sua vita (o forse sarebbe più corretto dire “con” tutta la sua vita) ha influenzato in maniera decisiva anche il piccolo mondo indiepop che frequento. Anzi, si potrebbe dire che in buona parte l’ha addirittura creato. Penso a nomi come Belle and Sebastian, Flaming Lips, Of Montreal, Magnetic Fields, Clientele, The Apples In Stereo, Ladybug Transistors, fino a Sufjan Stevens e Jens Lekman… Ognuno può aggiungere il proprio preferito.
Nei tanti necrologi di questi giorni (uno dei più belli, dalle nostre parti, è quello di Paolo Madeddu), la storia di Brian Wilson è stata spesso raccontata ricordando la sua “rivalità” con l’opera dei Beatles, la rincorsa tra gli album alla fine dei Sessanta, quelle visioni così diverse, ma anche quelle ambizioni così vicine. Eppure, se ami un certo indiepop, a me sembra che la figura di Brian Wilson sia interessante e fondamentale anche per altri motivi, e soprattutto per una dinamica diversa e tutta interna statunitense. L’autore di Pet Sounds ha rappresentato, in un certo senso, anche il contrappeso di un altro grande personaggio, a lui speculare e contemporaneo, come Lou Reed. Da Los Angeles a New York, West Coast contro East Coast, dalle spiagge assolate alle notti tra i grattacieli, dalle spiagge sotto cieli d’estate alla selvaggia giungla d’asfalto. Entrambi laconici, entrambi alle prese con problemi di sostanze, entrambi spesso fraintesi. Wilson architetto di armonie celestiali e malinconie risplendenti; Reed voce ruvida di storie crude tra le ombre della città. Ma entrambi, a modo loro e all’insaputa l’uno dell’altro, hanno contribuito a porre le basi dell’indiepop e delle sue due anime: quella sognante e quella più beffarda, quella spensierata e quella più introspettiva. Ed entrambi hanno una linea genealogica diretta con il bedroom pop e il lo-fi (vedi a questo proposito il capitolo dedicato a Brian Wilson nel bel saggio di Enrico Monacelli su bassa fedeltà e fuga dal capitalismo).
Per quanto il rock’n’roll potesse essere realistico e spietato, spigoloso e spavaldo, a volte fin troppo mascolino, gettando i semi di quello che poi diventerà il punk, c’era bisogno di una controparte luminosa, che sapesse ascoltare la dolcezza senza per questo cedere all’ingenuità; raccontare l’emotività come forma di resistenza; accettare la propria fragilità senza rinunciare a immaginare mondi nuovi e imprevedibili e, soprattutto, senza arrendersi alla disillusione.
Brian Wilson, tra le mille cose che è stato e che ha rappresentato, ci ha regalato anche tutta questa marea di colori e ha reso possibile un’intera galassia musicale, anche lontanissima da lui e dal suo genio. La sua sensibilità trasparente, le sue melodie cristalline, la sua ostinata ricerca di sincerità, le sue produzioni leggendarie, il suo spingersi costantemente oltre i limiti della tecnica, sono diventati elementi imprescindibili e costitutivi anche dell’estetica del piccolo, trascurato e a volte sguaiato indiepop. 
E anche per questo motivo mi permetto di aggiungere, da lontano, il mio ringraziamento twee ai tanti, bellissimi e commoventi che abbiamo letto in questi giorni tristi.



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