Allo smeraldo



Quello che non può lenire un cinema solitario, nulla può.

Se poi ci sono anche tutte le contingenze contestualizzanti, pop corn caramellati, coppie o, meglio sessantenni desolati il giusto di ritrovarsi soli in un esercizio non pornagrafico giacchè muniti di straordinari impermeabili di colore beige, temperature tropicali, a dispetto degli umidi camini di nebbia quasi cristallizzata da quel freddo poco e quasi subito fuori, fuori porta in direzione Futa, cammino di una vaghezza incredibile, serrande abbassate, fanali, tombini e poi ancora, ancora a scrutare dal di dentro poltrone rosse e inquietanti falangi luminose che squarciano tappezzerie di moquette pulite al vapore odorose di disinfettante, e dolby per pubblicità di pub che hanno nomi di gusto esotico so irish seppur grondanti sangue transiberiano.



Sentirsi Clarisse coi suoi segnali definivi. Che dire poi se il film è Miramax con patinatura compromessa da una aleatoria percentuale di eurocollaborazioni, implementato da una gamma di idiomi, con una scrittura altalenante tra il timido brillante e il felicemente ottuso, in modo tale che non si può rischiare in nessun modo di nutrire aspettative nè prima nè durante nè dopo, ma tutto scivola via in un plot tra il farsesco e il grottesco, senza mai vedere l’ombra di assurdo laddove si innesta la commedia sentimentale proprio lì dove dovrebbe invece arrestarsi, per completare la storia di genere, e invece trotterella, prende piede, trova spazio, e tutto l’intreccio si dilegua e si allenta si allarga e dipana in fast forward in un delizioso finale di sentimental comedy, come-di, gloriosamente inconsapevole. Ah, è tutto cinema cinema cinema.

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