John Belushi

Caro John,



non vorrei lasciare che questo 5 marzo vada a finire in vacca, come diresti tu, senza prima averti scritto almeno due righe.

Io ancora non mi sono ripreso da quell’ultimo toga party. E tu come te la passi?

Dopo il College ci siamo un po’ persi di vista, ma mi hanno detto che sei diventato famoso, soprattutto con quello spettacolino del Sabato Sera Tardi.



Sai, qui non è stato facilissimo. Il fatto è che là alla Delta ci avevi viziato: le feste, la birra, la musica giusta subito, saper portare tanto la cravatta quanto un lenzuolo, correre di notte per il campus del Faber e far morire d’infarto il cavallo di quello stronzo di Neidermeyer, oppure arrampicarsi sulle finestre dello studentato femminile…



Ci ripensavo una sera, tempo dopo, quando sono venuto a sentirti a un concerto di beneficenza che hai fatto dalle parti del lago.

Stupenda serata: tu e tuo fratello avete proprio una gran bella Band, tutti eleganti, veri maestri, neanche una piega se vi chiedevano un pezzo country.

Forse c’erano un po’ troppi poliziotti in giro, senza contare i nazisti dell’Illinois, ma che spettacolo… Hai più avuto problemi con le cavallette?



A dirti la verità, non ho mai creduto che ti fossi messo davvero a fare il giornalista. Ma come? Uno che si schiacciava le lattine in fronte come te? La canottiera tutta macchiata di mostarda e quel sopracciglio?

No, forse mi avresti convinto di più come folle capitano d’aviazione in preda alla paranoia per un’invasione giapponese nel 1941, ma ormai era passato troppo tempo.

Lo sai che fanno vent’anni oggi, John? e io avrei davvero una gran voglia di rivederti.



Sì, immagino, stai per spaccarmi la chitarra contro il muro e stai per ripetermi that nothing is over 'till we decide it!

Hai ragione, John, grazie. Lo terrò a mente.



Un abbraccio,

enzo



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