Poteva riuscire, francamente, una serata del cazzo.
Stai a sudare in ufficio da settimane, boccheggi in città, annaspi dentro un autobus e l’unica sera che c’è davvero qualcosa di impedibile: piove.
A Ferrara, per il concerto dei Múm (e anche dei Dirty Three, ok), era presente tutto il gotha della scena indie della Bassa: giornalisti musicali, gente della radio, fondatori di etichette discografiche, ragazze in sottoveste e sandali, gestori di negozi di dischi mooolto esclusivi, siti web tres tres cool, chitarristi post rock, quadri dirigenti dell’arci, fotografi digitali, ragazze in sottoveste senza sandali, tour promoter, dj, ex dj, futuri giovani scrittori.
(sì, l’adesivo dell’accredito va portato decisamente molto basso sulla maglietta)
Comunque piove un temporale estivo e non fa freddo, pare che restituiscano i soldi del biglietto, e poi no, intanto andiamo a prendere un’altra birra, si chiacchiera sotto il volto buio del ponte levatoio, incontro Lucio (quando su queste pagine?), nel fossato i disegni dell’acqua, la gente non se ne va (bene).
E poi i Múm escono a sorpresa e fanno due canzoni in acustico sotto il porticato a lato del cortile del Castello di Ferrara, per non abbandonarci, e io penso che tutto sommato i dieci euro la serata li meritava lo stesso, anche solo per vedere la scena di come quattro ragazzini (fisarmonica, violoncello, melodica, un piccolo Casio scollegato e tenuto insieme da nastro isolante giallo blu e rosso, ma soprattutto due filiformi voci femminili da innamorarsi) riuscissero a tenere in silenzio forse duecento persone grazie appena a un paio di piccole nenie, ninne nanne che possono provenire solo dall’Islanda o da un pianeta molto piccolo ai bordi di una galassia piuttosto malinconica, e al loro inconfutabile fascino.
La gente si è seduta per terra, ha ascoltato col fiato sospeso (ok, tranne qualche inevitabile cellulare) fino all’ultima nota un carillon appoggiato sopra la cassa del violoncello (per aumentare l’acustica?): roba che a spiegarla il giorno dopo non è così semplice.
(e poi volete mettere quanto ci si potrà sentire fighi raccontando di aver sentito Green grass of tunnel unplugged?!)
Dopo, ancora tra applausi commossi, i Dirty Three portano la batteria e due ampli e attaccano il loro show, ubriaco e costruito su cavalcate estenuanti, ma non ne so molto, lo ammetto, e insomma: mi sono seduto contro il muro in fondo a scrivere due righe all’IngegnIere che era stanca e non era venuta.
Per fortuna incontro anche Simone, come solito ci mettiamo a chiacchierare “using half-understood pop psychology as a tool”, quando all’improvviso ci vengono a chiedere in inglese di spostarci perché devono montare gli strumenti.
What? Quali strumenti? I Múm non erano il gruppo di apertura? Non avevano fatto un paio di pezzi tanto per non restituirci i soldi (sospetto serpeggiato tra il pubblico appena riacquistato quel tanto di self control e cinismo)?
E poi è successo qualcosa che descrivere come magico o emozionante è un po’ stucchevole, lo so, ma il fatto è che eravamo seduti per terra in mezzo ai monitor, praticamente ai piedi delle sorelle Kristín and Gyða Valtýsdóttir (piedi, tra l’altro, calzati da logoratissime espadrillas e scarpette di tela blu da garzone di fornaio: da domani imprescindibili), e mentre quei quattro kids si scambiavano tutti gli strumenti, poi correvano a sedersi davanti ai powerbook e poi di nuovo al piano, in mezzo ai cavi e agli effetti, o si inginocchiavano a turno sopra lo xilofono, i glitch i blip e le lunghe note dolenti, le dita sulla tastiera, la chitarra scrollata con indolenza (oh, mon dieu, Kristín suona anche il basso!), gli occhi chiusi mentre canta e poi li riapre e semplicemente sorride, noi speravamo di poter restare fino a quando il cielo sopra il cortile rinascimentale fosse diventato pallido e un’alba boreale ci avesse fatto accorgere che il Castello si era staccato come un iceberg: i Múm ci avevano portato in Islanda con loro.
Stai a sudare in ufficio da settimane, boccheggi in città, annaspi dentro un autobus e l’unica sera che c’è davvero qualcosa di impedibile: piove.
A Ferrara, per il concerto dei Múm (e anche dei Dirty Three, ok), era presente tutto il gotha della scena indie della Bassa: giornalisti musicali, gente della radio, fondatori di etichette discografiche, ragazze in sottoveste e sandali, gestori di negozi di dischi mooolto esclusivi, siti web tres tres cool, chitarristi post rock, quadri dirigenti dell’arci, fotografi digitali, ragazze in sottoveste senza sandali, tour promoter, dj, ex dj, futuri giovani scrittori.
(sì, l’adesivo dell’accredito va portato decisamente molto basso sulla maglietta)
Comunque piove un temporale estivo e non fa freddo, pare che restituiscano i soldi del biglietto, e poi no, intanto andiamo a prendere un’altra birra, si chiacchiera sotto il volto buio del ponte levatoio, incontro Lucio (quando su queste pagine?), nel fossato i disegni dell’acqua, la gente non se ne va (bene).
E poi i Múm escono a sorpresa e fanno due canzoni in acustico sotto il porticato a lato del cortile del Castello di Ferrara, per non abbandonarci, e io penso che tutto sommato i dieci euro la serata li meritava lo stesso, anche solo per vedere la scena di come quattro ragazzini (fisarmonica, violoncello, melodica, un piccolo Casio scollegato e tenuto insieme da nastro isolante giallo blu e rosso, ma soprattutto due filiformi voci femminili da innamorarsi) riuscissero a tenere in silenzio forse duecento persone grazie appena a un paio di piccole nenie, ninne nanne che possono provenire solo dall’Islanda o da un pianeta molto piccolo ai bordi di una galassia piuttosto malinconica, e al loro inconfutabile fascino.
La gente si è seduta per terra, ha ascoltato col fiato sospeso (ok, tranne qualche inevitabile cellulare) fino all’ultima nota un carillon appoggiato sopra la cassa del violoncello (per aumentare l’acustica?): roba che a spiegarla il giorno dopo non è così semplice.
(e poi volete mettere quanto ci si potrà sentire fighi raccontando di aver sentito Green grass of tunnel unplugged?!)
Dopo, ancora tra applausi commossi, i Dirty Three portano la batteria e due ampli e attaccano il loro show, ubriaco e costruito su cavalcate estenuanti, ma non ne so molto, lo ammetto, e insomma: mi sono seduto contro il muro in fondo a scrivere due righe all’IngegnIere che era stanca e non era venuta.
Per fortuna incontro anche Simone, come solito ci mettiamo a chiacchierare “using half-understood pop psychology as a tool”, quando all’improvviso ci vengono a chiedere in inglese di spostarci perché devono montare gli strumenti.
What? Quali strumenti? I Múm non erano il gruppo di apertura? Non avevano fatto un paio di pezzi tanto per non restituirci i soldi (sospetto serpeggiato tra il pubblico appena riacquistato quel tanto di self control e cinismo)?
E poi è successo qualcosa che descrivere come magico o emozionante è un po’ stucchevole, lo so, ma il fatto è che eravamo seduti per terra in mezzo ai monitor, praticamente ai piedi delle sorelle Kristín and Gyða Valtýsdóttir (piedi, tra l’altro, calzati da logoratissime espadrillas e scarpette di tela blu da garzone di fornaio: da domani imprescindibili), e mentre quei quattro kids si scambiavano tutti gli strumenti, poi correvano a sedersi davanti ai powerbook e poi di nuovo al piano, in mezzo ai cavi e agli effetti, o si inginocchiavano a turno sopra lo xilofono, i glitch i blip e le lunghe note dolenti, le dita sulla tastiera, la chitarra scrollata con indolenza (oh, mon dieu, Kristín suona anche il basso!), gli occhi chiusi mentre canta e poi li riapre e semplicemente sorride, noi speravamo di poter restare fino a quando il cielo sopra il cortile rinascimentale fosse diventato pallido e un’alba boreale ci avesse fatto accorgere che il Castello si era staccato come un iceberg: i Múm ci avevano portato in Islanda con loro.
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