Ochei: l'Estragon non è il chiostro di San Giovanni in Monte appena restaurato per noi di ritorno da Camere a Sud, ma ormai s'è capito che, come diceva un vecchio Cristiano Godano, se non abbiamo più ventanni, quelli sono cazzi nostri.
Vinicio l'ho intravisto tra la corrente alternata delle teste dei fuori sede luccicanti di ferro tra il denso del fumo, lui imbrigliato tra fili di luci come un albero di natale di villette giù in pianura e buone feste, il collo di pelo del nord, la maschera da saldatore, il bianco e rosso del cappello di Santa Claus, l'aureola di Santo Nicola.
Ha suonato dueoremmezzo generoso e sbandato come quel regista finlandese, lui e i suoi Leningrad Cowboys, appeso all'asta del microfono o seduto al piano.
Tra il vociare diffuso, intimando un 'rispetto', che a noi ci florilegia duemilioni di cose in tre sillabe soffiate dal basso e tra gli spiragli dei denti, ai tutti che attorno si scambiano promesse e album clandestini e i baci e gli abbracci, accenna una jingle bells che fa campanell e tutti giù per terra.
E, anche se è ormai una certezza che via calzoni non è il migliore dei posti in cui l'abbiamo visto montare la sua baracca e suonare senza risparmiarsi e, anche se, ancora ogni pezzo non sarà mai uguale a se stesso, ma iperbati di strofe inseguenti il refrain, inanellando labiali e gutturali fumose, laddove nessuno si ricorda come si declina il tempo e la storia e quale sia, dannazione, la rima, ma tutti ugualmente cantando e ballando e amandosi molto, ancora una volta tocca inchinarci e applaudire e render grazie.
In un concerto attaccato tra gli ululati dei rancorosi e che tra cronologici nessi analogici si è mangiato la coda mannara ammorbato dal Ballo di San Vito, non potevamo che sorriderci ancora una volta tra i cenni di barzellette e autoironia di cabaret aspettando che rimasto solo, al piano, eseguisse in appendice la sua Solo per me, dedicata ad Antonio Marangolo, ma, del resto, pure per noi, lì a rivedere scintille d'agosto e a tagliarci le vene. Rispetto, dunque.
Vinicio l'ho intravisto tra la corrente alternata delle teste dei fuori sede luccicanti di ferro tra il denso del fumo, lui imbrigliato tra fili di luci come un albero di natale di villette giù in pianura e buone feste, il collo di pelo del nord, la maschera da saldatore, il bianco e rosso del cappello di Santa Claus, l'aureola di Santo Nicola.
Ha suonato dueoremmezzo generoso e sbandato come quel regista finlandese, lui e i suoi Leningrad Cowboys, appeso all'asta del microfono o seduto al piano.
Tra il vociare diffuso, intimando un 'rispetto', che a noi ci florilegia duemilioni di cose in tre sillabe soffiate dal basso e tra gli spiragli dei denti, ai tutti che attorno si scambiano promesse e album clandestini e i baci e gli abbracci, accenna una jingle bells che fa campanell e tutti giù per terra.
E, anche se è ormai una certezza che via calzoni non è il migliore dei posti in cui l'abbiamo visto montare la sua baracca e suonare senza risparmiarsi e, anche se, ancora ogni pezzo non sarà mai uguale a se stesso, ma iperbati di strofe inseguenti il refrain, inanellando labiali e gutturali fumose, laddove nessuno si ricorda come si declina il tempo e la storia e quale sia, dannazione, la rima, ma tutti ugualmente cantando e ballando e amandosi molto, ancora una volta tocca inchinarci e applaudire e render grazie.
In un concerto attaccato tra gli ululati dei rancorosi e che tra cronologici nessi analogici si è mangiato la coda mannara ammorbato dal Ballo di San Vito, non potevamo che sorriderci ancora una volta tra i cenni di barzellette e autoironia di cabaret aspettando che rimasto solo, al piano, eseguisse in appendice la sua Solo per me, dedicata ad Antonio Marangolo, ma, del resto, pure per noi, lì a rivedere scintille d'agosto e a tagliarci le vene. Rispetto, dunque.
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