Kids are us


A Trento ci andiamo più che altro per guidare un paio d’ore, ascoltando misconosciuti gruppi twee-pop che l’estate scorsa si prodigavano per regalarti, generosi, emmepitre promozionali, mentre fuori dal finestrino la natura, generosa altrettanto, blandisce col suo clip new-age, il villeggiante propenso alla meraviglia e all’abbandono, tinte le dolomiti baciate dal sole e bagnate dal vino, parchi naturali animati da lemon jelly, le docili viti, rintocchi di campane, le croci di legno ai crocicchi, le chiese di pietra arroccate e merli neri e merli di castelli.



A Trento sembra estate per noi reduci di improvvise piogge battenti e tempeste di ghiaccio.



A Trento come tu ti aspetti c’è un desktop di montagne in fondo alle strade, ancora innevate o già verdi, verde pino, ecco, mica verde smeraldo come certe oltraggiose bandiere, incollato sullo sfondo pantone che solo un cielo di fine aprile e di sole che rompe irreversibile l’inverno alle nostre spalle.



A Trento, e deve esser per via di quel Concilio, si passeggia in un’aria austera e rarefatta, come a dire, il grigio della pietra di montagna sotto l’inviluppo dell’edera e le scene di genere dipinte a fresco, e noi un po’ segretarie e un po’ magdalene ci si sta in agio come le trote nell’adige, intontite e lascive.



La scusa, per cacciare un po’ il naso tra l’odore di resina e pigne che svapora dal dintorno sottobosco è una piccola mostra. La piccola mostra è sempre una scusa, del resto, in generale per mangiare tipico e bere tipico e dormire tipico. Noi no, del resto, tranci di pizza sui gradini del duomo, quasi una graticola, il sole delle due, la birra in lattina. Stiamo bene, aspettiamo un gelato.



La piccola mostra che si appende e appoggia e snoda e suona nelle sale della galleria civica di arte contemporanea e alla scuola elementare raffaello sanzio, si chiama kids are us (fino al 25 maggio).



Alla mostra ci sono molte opere davvero minori di artisti pressocchè famosi, tipo haring che fa un topolabirinto alla klee, basquiat che fa teschi marroni, quella gran simpatia di pippilotti rist, jeff koons su tela che vabbè è gigantesca e molto rosa pure se il colore rosa manca, e altri importanti italiani tipo bonomi e arienti e un tipo davvero atroce che si fa chiamare ultrapop, che rappresenta uomini come polli con un bastone infilato nel sedere in città in fiamme tra sacchetti di chickenmcnuggets.



La mostra è un gioco dell’oca, un po’ perchè è circolare come spesso capita alle mostre per vie dei posti che le ospitano, un po’ perchè per terra ci sono le caselle colorate e ad ogni numero c’è un opera e una seggiolina colorata dell’ikea e un gioco da fare che se li fai tutti poi ti regalano cappellino o rivista?

E se lo fai due volte due regali.



Noi che non ci stavamo nella seggiolina abbiamo giocato seduti per terra rubando le matite ai bambini, cronometrato il tempo per uscire dal labirinto di haring, costruito un borgo medievale, fatto il memory con un grande pannello di pasta di carta e souvenirs d’infanzia americana, interpretato basquiat sulla lavagna magica, fatto le analogie e le sensazioni con le casine di ettore de paris, disegnato calici di martini ad occhi chiusi attaccato gli adesivi di murakami al muro con l’url di polaroid, camminato una scuola elementare deserta, architettura del moderno rossa e grigia, tra opere d’arte abbandonate tra gli appendini coi nomi, bagni in miniatura, lavagne laboratori informatici a caccia di fili telefonici, fatto suonare la paglia e le canne di bambù.

Del resto: kids are us.

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