Voglio il tuo profumo
Cosa sarebbe un'educazione, una sana adolescenza, senza certi crudi turbamenti?
Penso, ad esempio, allo sgomento di riconoscere che quella che sta per venirvi sotto la tunica da chierichetto è proprio un'incontenibile erezione pubblica. (Celebrazione sbagliata.)
Ecco, di incenso e distratta liturgia puzza questo Smell of our own degli Hidden Cameras. Di schietto sesso che straripa dal corpo e irrefrenabile felicità. Si annusa certa polvere da oratorio (dove di cartella in cartella passavano i primi giornaletti) e c'è odore di biancheria ammucchiata nello spogliatoio, dove dopo l'allenamento ci si spingeva sotto la doccia.
The smell of our own mi fa pensare a un'età dove non esistevano le "preferenze sessuali", ma solo la fame, la sete, sudore sulla pelle e canzoni che facevano correre, prese senza pensare. Mi fa pensare all'età delle cose prese senza pensare.
A voler fare i pignoli, e parlare proprio di musica, molto di questo disco lo dicono già i primi secondi della traccia d'apertura, dove un quieto e austero organo da chiesa viene circondato dagli zampilli di un'arpa che mima nella maniera più nitida ben altri zampilli, per quello che è un vero inno alle "golden shower" (tema ripreso anche dalla canzone che chiude l'album).
Ma agli Hidden Cameras piace un po' di tutto e dappertutto, tipo arrivare tardi il giorno del proprio matrimonio gay perché si è fatto mattina "fingering foreign dirty holes in the dark" (Ban Marriage: scrivetelo nei bagni della scuola) o impersonare una versione piuttosto travestita e horny della Vergine Maria (Miracle).
E poi si scopre che non c'è poesia solo nelle macchie secche sulle poltrone lerce di un vecchio cinema o nei culetti dorati: ci sono cigni che si svegliano nel mattino cantando canzoni per nessuno, ci sono ragazzi sulla spiaggia, uniti dalla felicità di essere uniti, c'è il dolore della carne e dello spirito perseguito con gioia, ci sono gay bar, strade da riempire in parate, cieli luminosi e cupi, c'è il mondo il mondo il mondo.
A voler fare meno i poeti, si rammenta che gli Hidden Cameras provengono dal Canada, che sono il frutto della follia queer di Joel Gibb (semiologo) ma che, tra album e concerti, coinvolgono una trentina di persone (musicisti, ballerini, spogliarellisti e proiezionisti).
Molti non mancano di aggiungere che gli Hidden Cameras suonano "gay folk church music" e poggiano in quel punto dello spazio indie rock dove convergono le bisettrici di Polyphonic Spree, Belle & Sebastian, Magnetic Fields, R.E.M., Smiths e forse anche Beach Boys.
The smell of our own è il loro primo disco vero e proprio, pubblicato da Rough Trade, dopo i demo raccolti in Ecce Homo (2001) e alcuni singoli pregevoli, tra cui voglio ricordare almeno Ode to self publishing - Fear of 'zine failure.
Cosa sarebbe un'educazione, una sana adolescenza, senza certi crudi turbamenti?
Penso, ad esempio, allo sgomento di riconoscere che quella che sta per venirvi sotto la tunica da chierichetto è proprio un'incontenibile erezione pubblica. (Celebrazione sbagliata.)
Ecco, di incenso e distratta liturgia puzza questo Smell of our own degli Hidden Cameras. Di schietto sesso che straripa dal corpo e irrefrenabile felicità. Si annusa certa polvere da oratorio (dove di cartella in cartella passavano i primi giornaletti) e c'è odore di biancheria ammucchiata nello spogliatoio, dove dopo l'allenamento ci si spingeva sotto la doccia.
The smell of our own mi fa pensare a un'età dove non esistevano le "preferenze sessuali", ma solo la fame, la sete, sudore sulla pelle e canzoni che facevano correre, prese senza pensare. Mi fa pensare all'età delle cose prese senza pensare.
A voler fare i pignoli, e parlare proprio di musica, molto di questo disco lo dicono già i primi secondi della traccia d'apertura, dove un quieto e austero organo da chiesa viene circondato dagli zampilli di un'arpa che mima nella maniera più nitida ben altri zampilli, per quello che è un vero inno alle "golden shower" (tema ripreso anche dalla canzone che chiude l'album).
Ma agli Hidden Cameras piace un po' di tutto e dappertutto, tipo arrivare tardi il giorno del proprio matrimonio gay perché si è fatto mattina "fingering foreign dirty holes in the dark" (Ban Marriage: scrivetelo nei bagni della scuola) o impersonare una versione piuttosto travestita e horny della Vergine Maria (Miracle).
E poi si scopre che non c'è poesia solo nelle macchie secche sulle poltrone lerce di un vecchio cinema o nei culetti dorati: ci sono cigni che si svegliano nel mattino cantando canzoni per nessuno, ci sono ragazzi sulla spiaggia, uniti dalla felicità di essere uniti, c'è il dolore della carne e dello spirito perseguito con gioia, ci sono gay bar, strade da riempire in parate, cieli luminosi e cupi, c'è il mondo il mondo il mondo.
A voler fare meno i poeti, si rammenta che gli Hidden Cameras provengono dal Canada, che sono il frutto della follia queer di Joel Gibb (semiologo) ma che, tra album e concerti, coinvolgono una trentina di persone (musicisti, ballerini, spogliarellisti e proiezionisti).
Molti non mancano di aggiungere che gli Hidden Cameras suonano "gay folk church music" e poggiano in quel punto dello spazio indie rock dove convergono le bisettrici di Polyphonic Spree, Belle & Sebastian, Magnetic Fields, R.E.M., Smiths e forse anche Beach Boys.
The smell of our own è il loro primo disco vero e proprio, pubblicato da Rough Trade, dopo i demo raccolti in Ecce Homo (2001) e alcuni singoli pregevoli, tra cui voglio ricordare almeno Ode to self publishing - Fear of 'zine failure.
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