Yes, we are the quarries
Stavo già biasimando questo lunatico maggio bolognese, queste sue piogge marzoline e questo suo vento da aquiloni d´aprile, per avermi rubato l´odore dei tigli e le conseguenti passeggiate svagate, quando ho realizzato che la primavera stava rallentando il passo solo per permetterci di accogliere il nuovo disco di Morrissey con addosso ancora una felpetta almeno, un maglioncino blu, anche di cotone.
E così, finalmente, mi sono affacciato alla finestra aperta sull´imbrunire limpido per far ascoltare "You are the quarry" alla città di sotto anche se avevo freddo. E con la voce di Steven Patrick, mi chiedevo se questa primavera che non vuole finire soltanto per aspettare un disco non assomigli un po´ a questa nostra adolescenza, e che tutto il chiasso intorno a questo disco non sia parte della faccenda, non sia insomma un diversivo.
Potremmo tagliare corto, e dire che Morrissey non ha fatto alcun disco nuovo, oppure potremmo stare a parlare per ore e ore (lo desidero ardentemente) di come "You are the quarry" continui a far splendere la stella dell´ex cantante degli Smiths.
Davvero Morrissey aveva ragione in quell´intervista su NME: lui è rimasto dove è da sempre, ed è stato piuttosto il (buffo, ai suoi occhi) mondo della musica che ha fatto tutto il giro ed è ritornato da lui.
Le canzoni di Morrissey, infatti, sembrano tutte uscire dallo stesso imprecisato periodo che, anche a voler indicare delle date (1989-1994), si fa fatica a mettere a fuoco. Ne risulta una sorta di pop classico che mal si sopporterebbe addosso a qualunque altra band, mentre nel suo caso suona (all´orecchio amante) semplicemente senza tempo, rassicurante come la sua voce.
Che dire, quindi, di un disco che comincia con una sdegnata denuncia della politica statunitense e britannica, e si chiude con il verso "but oh, the squalor of the mind"?
Senza dubbio che si tratta di Morrissey puro al 100%, ovvero qualcosa che fa costantemente a gara con il proprio pubblico, che lo sfida su posizioni sempre meno difendibili.
Prendi la copertina, per esempio: c´è qualcosa di più attuale e di meno presentabile di un distinto signore di mezza età che imbraccia con eleganza un mitra?
No, Morrissey non è cambiato, tanto che la sua discografia potrebbe essere ricombinata e ricostruita per linee verticali: così la nuova America is not the world fa parte di quella serie di canzoni che riconducono ad At Amber o a The more you ignore me; il bel singolo Irish blood English Heart si aggrega a You´re gonna need someone on your side; Back to Camden rivive l´epica di I know it´s gonna happen someday... e così via, fino alla divertente I Like You che riecheggia (e qualcosa di più) Interesting drug.
In fondo, Morrissey è ancora qui a cantarci "it´s so shameful of me" (e a questo punto, chiunque possieda almeno una vecchia cassetta degli Smiths, ripete mentalmente "tipically me / tipically me" ecc.)
Ma tra gli altri brani brilla The first of the gang to die, e brilla proprio come una canzone già amata tanto tempo fa (forse The last of the famous international playboy?), uno dei momenti in cui Morrissey riesce a parlare anche di qualcos´altro oltre che di sé, e dove il suo sguardo vetero-britannico si posa sul mondo degli ispano-americani di Los Angeles, attualmente sua patria adottiva.
Molte le canzoni lente in scaletta, cosa che può rischiare di far perdere un po´ di coesione a tutto il discorso. E´ però da tenere anche presente che l´over 40 Morrissey quest´estate dovrà reggere i palchi dei megafestival di mezzo mondo.
Noi siamo semplicemente contenti che sia tornato: questo disco, come gli ultimi, non conquisterà nessun nuovo fan, ma d´altra parte nessuno dei vecchi nemmeno lo abbandonerà. Stasera qui si ascolta volentieri Morrissey, da domani si torna a parlare di musica.
Stavo già biasimando questo lunatico maggio bolognese, queste sue piogge marzoline e questo suo vento da aquiloni d´aprile, per avermi rubato l´odore dei tigli e le conseguenti passeggiate svagate, quando ho realizzato che la primavera stava rallentando il passo solo per permetterci di accogliere il nuovo disco di Morrissey con addosso ancora una felpetta almeno, un maglioncino blu, anche di cotone.
E così, finalmente, mi sono affacciato alla finestra aperta sull´imbrunire limpido per far ascoltare "You are the quarry" alla città di sotto anche se avevo freddo. E con la voce di Steven Patrick, mi chiedevo se questa primavera che non vuole finire soltanto per aspettare un disco non assomigli un po´ a questa nostra adolescenza, e che tutto il chiasso intorno a questo disco non sia parte della faccenda, non sia insomma un diversivo.
Potremmo tagliare corto, e dire che Morrissey non ha fatto alcun disco nuovo, oppure potremmo stare a parlare per ore e ore (lo desidero ardentemente) di come "You are the quarry" continui a far splendere la stella dell´ex cantante degli Smiths.
Davvero Morrissey aveva ragione in quell´intervista su NME: lui è rimasto dove è da sempre, ed è stato piuttosto il (buffo, ai suoi occhi) mondo della musica che ha fatto tutto il giro ed è ritornato da lui.
Le canzoni di Morrissey, infatti, sembrano tutte uscire dallo stesso imprecisato periodo che, anche a voler indicare delle date (1989-1994), si fa fatica a mettere a fuoco. Ne risulta una sorta di pop classico che mal si sopporterebbe addosso a qualunque altra band, mentre nel suo caso suona (all´orecchio amante) semplicemente senza tempo, rassicurante come la sua voce.
Che dire, quindi, di un disco che comincia con una sdegnata denuncia della politica statunitense e britannica, e si chiude con il verso "but oh, the squalor of the mind"?
Senza dubbio che si tratta di Morrissey puro al 100%, ovvero qualcosa che fa costantemente a gara con il proprio pubblico, che lo sfida su posizioni sempre meno difendibili.
Prendi la copertina, per esempio: c´è qualcosa di più attuale e di meno presentabile di un distinto signore di mezza età che imbraccia con eleganza un mitra?
No, Morrissey non è cambiato, tanto che la sua discografia potrebbe essere ricombinata e ricostruita per linee verticali: così la nuova America is not the world fa parte di quella serie di canzoni che riconducono ad At Amber o a The more you ignore me; il bel singolo Irish blood English Heart si aggrega a You´re gonna need someone on your side; Back to Camden rivive l´epica di I know it´s gonna happen someday... e così via, fino alla divertente I Like You che riecheggia (e qualcosa di più) Interesting drug.
In fondo, Morrissey è ancora qui a cantarci "it´s so shameful of me" (e a questo punto, chiunque possieda almeno una vecchia cassetta degli Smiths, ripete mentalmente "tipically me / tipically me" ecc.)
Ma tra gli altri brani brilla The first of the gang to die, e brilla proprio come una canzone già amata tanto tempo fa (forse The last of the famous international playboy?), uno dei momenti in cui Morrissey riesce a parlare anche di qualcos´altro oltre che di sé, e dove il suo sguardo vetero-britannico si posa sul mondo degli ispano-americani di Los Angeles, attualmente sua patria adottiva.
Molte le canzoni lente in scaletta, cosa che può rischiare di far perdere un po´ di coesione a tutto il discorso. E´ però da tenere anche presente che l´over 40 Morrissey quest´estate dovrà reggere i palchi dei megafestival di mezzo mondo.
Noi siamo semplicemente contenti che sia tornato: questo disco, come gli ultimi, non conquisterà nessun nuovo fan, ma d´altra parte nessuno dei vecchi nemmeno lo abbandonerà. Stasera qui si ascolta volentieri Morrissey, da domani si torna a parlare di musica.
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