Max
Questa è una delle due sole fotografie di Max che ho trovato nel mio computer. Nell'altra si vedono lui e Ferruccio dei CUT con le facce piuttosto affaticate, abbagliati da un flash impietoso. Sarà stata scattata all'ora di chiusura del Covo, chissà quando. Questa mi piace di più perché Max guarda per un secondo nell'obiettivo ma è mosso, mi guarda ma per metà sta già uscendo dall'inquadratura.
Max non lo conoscevo quasi per niente. Neanche all'epoca in cui andavo al Covo due o tre volte la settimana, neanche quando mettevo i dischi lì accanto a lui siamo mai riusciti a condividere più di poche parole su qualche band, una battuta su qualche concerto o su quel che succedeva in pista. E mi dispiaceva molto, perché era un personaggio che ti poteva stare a raccontare storie per ore. Questione di carattere: la sera in cui lui portò Pete Doherty all'Estragon, io ero al Covo a vedere i Suburban Kids With Biblical Names. Una volta mi spiegò questa differenza come fosse un rimprovero. Poi quella stagione di Viale Zagabria passò, altre ne arrivarono ed era tutto più o meno normale così.
Quando qualcuno muore, una delle prime reazioni è quella di mettere in relazione chi è scomparso con la nostra vita. I ricordi che ci hanno legato, gli incontri, una trama per tenere assieme tutti quegli anni. Giovanni ha scritto delle parole molto belle, ed è un buon modo per capire di cosa stiamo parlando. Ma quando ho saputo della morte di Max mi è scesa addosso una tristezza ottusa, un vago senso di precarietà che fatico a scuotere via e che non comprendo bene, perché sento che la notizia non mi coinvolge soltanto a livello personale. Tocca anche qualcosa che conta di più, un "noi" che non so esprimere ma che c'è, una parte di questa città che sento ancora vicina e per la quale Max aveva fatto cose belle e importanti.
Questa è una delle due sole fotografie di Max che ho trovato nel mio computer. Nell'altra si vedono lui e Ferruccio dei CUT con le facce piuttosto affaticate, abbagliati da un flash impietoso. Sarà stata scattata all'ora di chiusura del Covo, chissà quando. Questa mi piace di più perché Max guarda per un secondo nell'obiettivo ma è mosso, mi guarda ma per metà sta già uscendo dall'inquadratura.
Max non lo conoscevo quasi per niente. Neanche all'epoca in cui andavo al Covo due o tre volte la settimana, neanche quando mettevo i dischi lì accanto a lui siamo mai riusciti a condividere più di poche parole su qualche band, una battuta su qualche concerto o su quel che succedeva in pista. E mi dispiaceva molto, perché era un personaggio che ti poteva stare a raccontare storie per ore. Questione di carattere: la sera in cui lui portò Pete Doherty all'Estragon, io ero al Covo a vedere i Suburban Kids With Biblical Names. Una volta mi spiegò questa differenza come fosse un rimprovero. Poi quella stagione di Viale Zagabria passò, altre ne arrivarono ed era tutto più o meno normale così.
Quando qualcuno muore, una delle prime reazioni è quella di mettere in relazione chi è scomparso con la nostra vita. I ricordi che ci hanno legato, gli incontri, una trama per tenere assieme tutti quegli anni. Giovanni ha scritto delle parole molto belle, ed è un buon modo per capire di cosa stiamo parlando. Ma quando ho saputo della morte di Max mi è scesa addosso una tristezza ottusa, un vago senso di precarietà che fatico a scuotere via e che non comprendo bene, perché sento che la notizia non mi coinvolge soltanto a livello personale. Tocca anche qualcosa che conta di più, un "noi" che non so esprimere ma che c'è, una parte di questa città che sento ancora vicina e per la quale Max aveva fatto cose belle e importanti.
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