Di tutto quello che ci è stato tramandato della Bologna del 1977, forse la mia foto preferita è questa qui sopra: il retro di copertina del primo disco degli Skiantos, Inascoltable, scritto sbagliato proprio così. Un disco sgangherato, divertentissimo e a tratti claustrofobico, in cui le intuizioni geniali vengono travolte di continuo da una baraonda lisergica e casereccia al tempo stesso. "Un disco fatto tutto in una notte", leggevo da ragazzino, e mentre il vinile girava sul piatto restavo a immaginare come fosse stato possibile, quali storie ci fossero dentro quel suono rock grezzo, informe ma dotato di una forza per me, sbarbo, sconcertante. Le poche righe del testo finivano con quel "sono passati moltissimi anni", che nella mia testa risuonava cristallino nella voce di Freak Antoni, e mi spezzava il cuore.
Freak Antoni è quello in basso a destra nella foto, un colossale sorriso smagliante sparato sul bianco della fotocopia, i capelli arruffati e la cravatta beffarda sulla maglietta. Lui era quello che all'inizio di una cassetta C60 che mi portavo dietro dalle scuole medie urlava 1, 2, 6, 9! e tirava giù i muri, gli stessi muri che io, da buon adolescente, avrei voluto prendere a pugni come in Pesto Duro. Guardavo quella faccia stralunata, in mezzo a quel gruppo di sconvolti, e pensavo che avesse trovato il modo di dire così bene una cosa talmente potente, semplice e perfetta, che riusciva a fartelo capire anche soltanto da una fotografia. Nessuno mi aveva ancora raccontato il Punk, il DAMS, Pazienza, Radio Alice, l'Harpo's Bazaar, la Traumfabrik, i carri armati in Piazza Verdi contro l'Università, eppure mi bastava che attaccasse il riff di Eptadone per sentire il cervello friggere e in un secondo vedere passare tutta la Storia. Storia che era, e resterà per sempre, "tesa".
Volevo fare il Poeta Demente per colpa di quella faccia e di quel sorriso, per colpa di quegli urli sguaiati alla fine di Sesso e Karnazza, per come franava sfasciato l'ultimo verso di Io sono uno skianto, per quel modo atroce e romantico di dire Bau Bau Baby, perché anche lui sapeva chi erano le Sbarbine, perché ai ragazzini parlava di merda e Avanguardia, gettandoli nel caos più fertile ed entusiasmante che i nostri pochi confusi pensieri avessero conosciuto fino ad allora.
Quando ho incontrato gli Skiantos stavano finendo di cantare la commovente Sono un ribelle, mamma e ormai chiedevano al rock soltanto di "rantolare ancora". Erano in effetti passati moltissimi anni. Anni che Freak Antoni doveva aver vissuto a una velocità diversa da quella di tanti altri: "troppo rischio per un uomo solo". I suoi libri sembravano inafferabili (oltre che abbastanza introvabili). Certo, c'erano le battutine fulminanti, quelle da ricopiare sul diario o da scrivere sul muro dei bagni, ma c'erano anche un sacco di pagine indecifrabili, in cui avevi la sensazione di non aver capito bene di cosa stesse parlando. Pier Vittorio Tondelli, nella postfazione a Stagioni del rock demenziale, sostiene che Freak Antoni ci spediva resoconti fantascientifici da una galassia lontanissima che era la nostra coscienza demenziale. E che così facendo non stava raccontando altro che la nostra "disastrata, inebetita e ritardata" patria. Viene da citare un altro suo notissimo motto: "Non c'è gusto in Italia ad essere intelligenti".
Quando questa mattina ho letto che se ne era andato, come tutti ho ricordato le sue canzoni, i concerti sempre imprevedibili, la verdura gettata sul palco e dal palco, le cassette passate da qualche fratello maggiore. E poi sono tornato a cercare questa foto: Freak era ancora lì che ci sorrideva, e poi m'ha preso l'emozione son scappato col furgone.
(mp3) Skiantos - Eptadone
UPDATE: qui il podcast del piccolo speciale radiofonico di polaroid dedicato a Freak Antoni, trasmesso su Radio Città del Capo e realizzato con la collaborazione di Francesco “Ted Nylon” Garbari, Oderso Rubini, Roberto “Phil Anka” Grassilli e Francesca Rimondi.
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