Quando arrivi in paradiso, è meglio se fai finta di essere morto. Ecco: il senso dell'umorismo un po' dark dei Salad Boys potrebbe essere riassunto in questi versi di In Heaven, canzone contenuta nel nuovo album This Is Glue, pubblicato da Trouble In Mind. Questo succede quando le cose, per modo di dire, vanno bene. Più spesso i racconti della band di Christchurch si aggregano per frammenti i cui "colori" appaiono desolati, quando non del tutto cupi. Fin troppo facile estrapolare alcuni titoli come Scenic Route To Nowhere, Hatred o Going Down Slow, pensando di avere già capito che aria tira. Poi a scompigliare le carte arrivano le chitarre più frenetiche e travolgenti (Psych Slasher o Blown Up) che sembrano partire da certe atmosfere Sebadoh per rimandare a quell'introspezione diffidente e disillusa un po' Elliott Smit. Non per niente, il comunicato che presenta il disco ribadisce che "existential angst has never felt so exhilarating". C'è una deliberata vaghezza nei dettagli, i suoni a tratti si fanno jangling (evidenti anche le influenze dei REM o dei connazionali Bats) e a tratti più lo-fi e massicci. Insomma, un po' la Nuova Zelanda che amiamo e un po' il caro vecchio indie roc, morto e sepolto e ancora lì, pronto afarsi una risata.
Quando arrivi in paradiso, è meglio se fai finta di essere morto. Ecco: il senso dell'umorismo un po' dark dei Salad Boys potrebbe essere riassunto in questi versi di In Heaven, canzone contenuta nel nuovo album This Is Glue, pubblicato da Trouble In Mind. Questo succede quando le cose, per modo di dire, vanno bene. Più spesso i racconti della band di Christchurch si aggregano per frammenti i cui "colori" appaiono desolati, quando non del tutto cupi. Fin troppo facile estrapolare alcuni titoli come Scenic Route To Nowhere, Hatred o Going Down Slow, pensando di avere già capito che aria tira. Poi a scompigliare le carte arrivano le chitarre più frenetiche e travolgenti (Psych Slasher o Blown Up) che sembrano partire da certe atmosfere Sebadoh per rimandare a quell'introspezione diffidente e disillusa un po' Elliott Smit. Non per niente, il comunicato che presenta il disco ribadisce che "existential angst has never felt so exhilarating". C'è una deliberata vaghezza nei dettagli, i suoni a tratti si fanno jangling (evidenti anche le influenze dei REM o dei connazionali Bats) e a tratti più lo-fi e massicci. Insomma, un po' la Nuova Zelanda che amiamo e un po' il caro vecchio indie roc, morto e sepolto e ancora lì, pronto afarsi una risata.
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