Avevo visto Jesse The Faccio dal vivo per la prima volta una bella sera dell'estate scorsa, su in collina al Rudere. Non li conoscevo e se non sbaglio all'epoca non avevano fatto ancora uscire praticamente nulla: mi aveva incuriosito il loro primo video 19.90, bello fai-da-te e schietto, con quell'atmosfera vagamente disgraziata ma non priva di poesia, e il resto era stato merito di Davide Brace, loro entusiasta sostenitore, che a banco evangelizzava tutti quelli che salivano dalla città per la musica e le birrette dopo il tramonto.
Il concerto mi aveva spiazzato: l'idea di suonare oggi quell'indie rock in italiano e con quell'atteggiamento così esplicitamente slacker, senza tentare di risultare simpatico a tutti i costi, appariva talmente fuori contesto che non poteva non entusiasmarmi. Me ne tornai a casa e per un po' di tempo non mi levai dalla testa quel ritornello che diceva "Meno persone più parole / Meno parole più tensioni". I ragazzi erano decisamente promettenti, e non vedevo l'ora che pubblicassero un album. Arrivò l'autunno e in effetti qualcosa uscì, ma sembrava reperibile soltanto su Spotify e da anziano poco socievole non fui capace di ricordarmene. Poco prima di Natale la band padovana tornò a Bologna per fare da spalla alle Altre Di B al Locomotiv Club, e fu una serata ancora più carica. Questa volta avevano preparato un po' di cd e cassette, e così finalmente misi le mani su I soldi per New York (prodotto da una cordata di etichette: Mattonella Records, Dischi Sotterranei, Stradischi, Wooden Haus e Pioggia Rossa) e devo dire che l'album diede soddisfazione a tutte le attese.
Se prima mi si era conficcato in testa un solo ritornello, ora avevo una quantità di versi incastrati come piccoli labirinti dentro cui perdermi ("Cosa viene dal basso / Parole senza dove": esattamente!). Nonostante le storie di queste otto canzoni, a prima vista, non diano l'impressione di voler andare da nessuna parte, Jesse The Faccio si rivela molto bravo a infilare i contorni di piccoli racconti sfuggenti in mezzo a certi scioglilingua che sembrano fluire un po' per caso sull'orlo del nonsenso (la noia di Beach, il ricordo delle vacanze da bambino di Inverno, l'impazienza giovanile di Rasami).
Jesse racconta di essere un grande fan dell'indie rock statunitense contemporaneo (nelle sue interviste ritornano nomi come Beach Fossils, Alex G, Mac De Marco), ma a dargli una certa originalità sono, da una parte, il modo in cui questo gusto filtra nel suo cantato in italiano e, dall'altra, l'approccio nettamente a bassa fedeltà che caratterizza la sua musica. Io chiamerei più in causa suoni Anni Novanta, come dei Sebadoh di provincia, più scarni e adolescenti, con una certa grinta ma al tempo stesso con quella tipica indolenza nel non volerla dispiegare ("Non mi frega cosa faccio / Se gli accordi son sbagliati").
Il concerto di Bologna culminò in una travolgente cover di Gennaio dei Diaframma che sembrava passata per le mani dei primi New Order, e chissà se in quella riuscita combinazione sta la chiave per capire cosa aspettarsi prossimamente da questa band. Per ora, metto da parte i soldi per New York e attendo fiducioso.
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