The chapter in our lives entitled The Lucksmiths


THE LUCKSMITHS



Remember when I said you were too young

To start a story with "Remember when..."?




Oggi fanno dieci anni da quando si sono sciolti i Lucksmiths, e in mezzo a tutti gli anniversari, ai revival e alle retromanie che ogni giorno si accavallano nei nostri incessanti discorsi e commenti, oggi voglio ritornare a quel ricordo, all’epoca in cui la musica era quel “warmer corner” e i Lucksmiths possedevano la formula segreta e semplice di una “invention of ordinary everyday things” che ci scaldava il cuore come quasi nessun altro. Era il suono con cui cominciavamo a orientarci nella vita, la nostra “cartography for beginners”. Era il suono di una “music from next door” che ci faceva tornare in mente qualcuno a cui avevamo tenuto la mano mentre faceva l’alba, o qualcuno che era svanito nei “ci vediamo dopo l’estate” e nei “ti scriverò quando arrivo”. I Lucksmiths facevano canzoni ancora dal secolo delle lettere scritte a mano, delle cartoline, dei titoli a pennarello sulle cassette e delle telefonate con il prefisso all’ora stabilita: “I Prefer The Twentieth Century”. Le notizie ci arrivavano una alla volta dall’affettuosa tigre perplessa di Indiepages o dalle colonne precarie di Soundsxp, e noi addirittura esultavamo se un mensile citava in un trafiletto una delle “nostre” band preferite.

Marty Donald, Mark Monnone e Tali White fondarono i Lucksmiths a Melbourne nella primavera del 1993. Chitarra, basso e batteria: tanto Jonathan Richman, tanti Housemartins e Billy Bragg, un po’ di Belle and Sebastian, e soprattutto meno Smiths di quanto avrebbe potuto far credere il nome. Marty scriveva i pezzi, Tali li cantava con la sua voce dolcissima suonando in piedi rullante e charleston, Mark faceva battute in australiano stretto, per noi indecifrabili. Nell’ultima e più impegnativa parte della vita della band si aggiunse Louis Richter, a dare corpo a una musica limpida che è riuscita a raggiungere una perfezione indiepop quasi impossibile. E i Lucksmiths ci sono riusciti parlando per praticamente metà dei loro testi del tempo, del cielo, delle stagioni che passavano e ci allontanavano, della pioggia e del sole. “Unimpressed and unemployed / But I refuse to waste this weather”. Ancora provo sincero stupore – dopo tutti questi anni – per la pelle d’oca che continuo a sentire quando arrivano quattro versi naïf come “And I say hey, it's a beautiful day / And I'm starting to feel a lot better / So wake up, wake up / It's T-shirt weather”.

Un tempo da magliette, il sole di una giovinezza che era capace di raccontare ogni malinconia, ogni “hiccup in your happiness”, ogni impaccio di noi “camera shy”, ogni amore smarrito nelle “great lenghts”, e nonostante tutto di sorridere ancora.

















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