That taste of honey has soured in time

The Natvral - Tethers

Possiamo raccontarci tutte le bugie che vogliamo sull'eterna giovinezza rock'n'roll e sulla forza della musica che salva, ma arriverà quel giorno in cui qualche innocente, battendo una mano sulla tua spalla, ti saluterà con un sorriso dicendo "ehi, uomo, ma non ti si vede più in giro, dov'eri finito?". E in quel preciso istante, anni e stagioni, buoni propositi e ricordi perduti, abbracci, corse, baci sopra la musica e grida sotto al palco, tutto sbiadirà e appassirà in un soffio, e un velo di grigio leggero si aggiungerà in silenzio al grigio che già cominciava a sfumare sulle tue tempie. Mi raccomando, non fare tardi, domattina devi prendere il treno.
Kip Berman è stato senza dubbio uno dei protagonisti della "nostra" piccola scena indiepop del ventunesimo secolo, un secolo in cui era già abbastanza complicato anche soltanto immaginare che una scena indiepop esistesse. I suoi Pains Of Being Pure At Heart (quel nome!) e la loro manciata di dischi sono stati un lampo entusiasmante, ci avevano travolto dalla prima nota di quella lontana This Love Is Fucking Right! ‎e per quasi un decennio avevano monopolizzato i nostri cuori. Quando uscì l'epilogo di quella storia, The Echo Of Pleasure, intuivamo già l'incertezza di una fine, o quanto meno di un cambio d'abito. La maturità e, al tempo stesso, ancora l'irresistibile voglia di scrollarsela di dosso.
Tutte le cose che si leggono intorno a questa nuova fase della carriera di Kip Berman parlano di qualche forma di passaggio: da Brooklyn a una cittadina del New Jersey; dalla band sempre in tour alla vita di padre di famiglia; dall'irruente suono figlio dello shoegaze e del noise pop alle influenze più folk rock e alla predilezione per certe tracce acustiche.
"Ehi Kip, ma non ti si vede più in giro, dov'eri finito?". Ciò che riesce a fare Kip Berman in questo suo nuovo costume chiamato The Natvral e dentro questo esordio intitolato Tethers è prendere quella battuta infelice e proiettarla su una serie di personaggi dentro le sue canzoni: Sylvia, Maura, Jane, Freya... Tutte hanno condiviso un tempo e un amore con il narratore, ma tutte restano, alla fine, distanti: "That taste of honey has soured in time / Almost forgotten I never called you mine" (Alone In London). La maggior parte di queste storie sono raccontate da lontano, come se le strade che ogni nome ha preso fossero ben visibili dal punto di osservazione da cui vengono cantate (Runaway Jane), ma anche separate senza rimedio: un taglio netto nelle nostre vite ci ha levato anche la possibilità della nostalgia. Soltanto Tears Of Gold, per un attimo, sembra tremare di malinconia e rimpianti: "I'm lost out in some thought / That I'd sooner be forgot". Ma è una debolezza che svanisce subito.
La forma di queste canzoni è quella di tante ballate alla Bob Dylan o Neil Young. Voce e chitarra, semplici e schiette, a volte con arrangiamenti di organo (prezioso contributo di Kyle Forester) a dare profondità alle melodie. E sembra quasi che non si tratti della stessa persona che aveva scritto Everything With You o Come Saturday. Ora c'è un'altra vita da cantare.
"Ehi Kip, ma non ti si vede più in giro, dov'eri finito?". Kip Berman ha capito talmente bene dove va a parare quella domanda (e come ribaltarla) da lasciarla proprio in apertura del disco, con la più grandiosa canzone qui in scaletta, una Why Don't You Come Out Anymore? che grida e strepita come una classica Like A Rolling Stone. La canzone parla del fuoco che abbiamo lasciato spegnere, degli errori a cui non possiamo rimediare, e dei bar in cui facevamo chiusura che ora hanno chiuso per sempre. Ma sa anche che non ha senso infuriarsi contro il tempo, contro le scelte che ci hanno portato lontani, cercando chissà quale rivalsa: "I tell you, I'm no better". Come se questo disco volesse liberarsi per sempre dei "legacci" che ci impediscono di essere chi siamo, e non chi vogliono gli altri, ma ci dicesse anche di amare gli altri per quello che sono, e non per quello che noi vogliamo che siano.



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