Quando il tramonto arriva ogni sera un attimo prima di quello che ti aspetti, e non vuoi arrenderti all’idea che i raggi del sole non riescano più a scaldarti come facevano. Quando il colore della tua pelle inizia a sbiadire e i tuoi occhi non trovano più da nessuna parte quel punto dell’orizzonte in cui cielo e onde si mescolavano. Quando ti accorgi di cominciare a confondere i ricordi di quella luce che fino a poche settimane prima era tutto per te, allora è il momento di tornare a suonare un album come The Ballad Of Doug. Nel mezzo all’estate ti era sembrato soltanto piacevole ma quasi troppo garbato e distante: poi sei arrivato qui, qui dove le irremovibili abitudini tornano a piegarsi intorno a te metodiche e pazienti, qui dove comincia a farsi sentire sempre più forte la mancanza di un altrove fatto solo di tempi più leggeri e sorridenti, qui dove il mattino a poco a poco contrae e dilegua la sua meraviglia: è qui che la musica agrodolce dei Telephone Numbers ti ha colpito più a fondo. Ci voleva questa voglia d’estate, ora che dell'estate non resta quasi più nulla, per ascoltare con commozione nuova e con passione un bel disco che per tutta l’estate ti aveva accompagnato senza farsi troppo notare.
I Telephone Numbers sono una creatura del chitarrista e cantante di San Francisco Thomas Rubenstein. Qualcosa della sua città, di quella tradizione musicale ma anche dei suoi venti dall’oceano e delle sue foschie pigre trapela nella sua musica. C’è esuberanza ma anche la netta sensazione che spesso le canzoni non ci dicano tutto, elusive e riservate. Melodie che prendono respiro tanto dal power pop degli Ottanta (ci sono tanti R.E.M. e La’s in queste dieci canzoni), quanto dagli arpeggi scintillanti e senza tempo dei Byrds e dei Teenage Fanclub. Puoi ritrovare quell’indiepop classico dei Billie The Vision nell’apertura di You’re Nowhere, oppure abbandonarti al crepuscolo Real Estate tra gli archi di Kaleidoscope, e addirittura ritrovare qualcosa degli Shins in Cards They Show You. Ogni elemento però viene misurato con cura e attenzione, come se l’intenzione fosse quella di non distrarti troppo dal racconto principale.
Avevamo già incontrato Rubenstein l’anno scorso, al fianco di Glenn Donaldson dei Red, Pinks & Purple, per un 45 giri sulla sua Fruits & Flowers. Rispetto a quel Leviathan, questo nuovo The Ballad Of Doug sembra voler a tutti i costi arrotondare e smussare, addolcire, rendere in qualche modo più sofferto e al tempo stesso delicato il suo percorso di introspezione, l'osservazione di questo passaggio. Un suono che sa di non poterti scaldare come l’estate che hai appena perduto, ma che è capace di restare vicino a te per ogni estate che ritroverai.
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