È arrivato maggio, il cosiddetto “press cycle” intorno alle Wet Leg si è ormai consumato e l’attenzione si è spostata verso altri hype e sulle altre novità du jour (Arcade Fire? Sharon Van Etten? La reunione dei Voxtrot? Ah!). Se dovessi tirare le somme della quantità di recensioni, profili, interviste e articoli che ho letto intorno a questo piccolo fenomeno, direi che è stata una stagione istruttiva e appassionante. Un tale polverone intorno a una semplice band indie rock, in apparenza sbucata dal nulla ma già così risoluta, non lo vedevo da un sacco di tempo, e mi è piaciuto che fossero due ragazze come Rhian Teasdale e Hester Chambers a essere state, almeno per qualche sfavillante minuto, l’unità di misura della conversazione musicale.
Il disco, come più o meno hanno scritto tutti, è un asciutto concentrato di ritornelli implacabili, chitarre aspre, voci impassibili che declamano versi a vario grado di licenziosità o, in alternativa, di schietta misantropia, mentre magari si prendono allegramente gioco di maschi impresentabili ("When I think about what you've become / I feel sorry for your mum") o della Generazione X (“You said, Baby do you want to come home with me? / I've got Buffalo '66 on DVD”). Il disco non fa mistero di avere come riferimenti principali band classiche come Elastica, Franz Ferdinand oppure Yeah Yeah Yeahs (giusto per citare alcuni dei nomi letti più di frequente), e in maniera del tutto inconsapevole mi ha risvegliato una madeleine dei sottovalutati The Chalets. La cosa bella è però che le Wet Leg trattano questa materia e questa lingua con una leggerezza, un’ironia e anche un’efficacia davvero poco comuni per una band al debutto. Il disco, soprattutto, è per buona parte da ballare, soltanto quello, se ancora qualcuno si ricorda come si ballava a certe serate indie.
E sta proprio qui il punto che mi ha interessato maggiormente nella marea di stampa intorno alle Wet Leg: quella sensazione che ci fosse una generale convergenza dei giudizi postivi, ma anche una generale mancanza di empatia e sincero entusiasmo. Mi raccomando, non sbilanciamoci e non andiamo oltre la moderazione di un 7.6, per esempio. Puoi quasi leggere tra le righe dei piani editoriali: stiamo safe e vediamo cosa resterà dell’hype tra qualche mese. Per quanto mi riguarda, non sono assurdamente convinto che questo disco delle Wet Leg meriti il 10 di qualche altro genio che cambia la storia della musica. Ma se scrivi di trovare la band dell’Isola di Wight spassosa, se scrivi che il loro suono e anche il loro atteggiamento sono una imprevista ventata d’aria fresca in una scena per tanti versi obsoleta, mi piacerebbe percepire in qualche modo il tuo reale spasso e la tua reale sorpresa.
Il meglio che riesce a fare il più approfondito pezzo che ho letto intorno alle Wet Leg, una bella conversazione tra Ann Powers, Jacob Ganz e Hazel Cills pubblicata da NPR con il titolo di “Meme Girls: Three squares talk about Wet Leg, the band everybody's talking about”, si può riassumere in questo paragrafo: “Wet Leg is as fun to listen to as it is to think about, and in the band's loopy, addictive rock songs you can either turn your brain off completely, or turn your brain on to the sounds and styles of the far-reaching musical universe contained within it”. Non so, mi sembra un po’ asettico, no?
Almeno su Interview, il regista Edgar Wright (quella della “Trilogia del Cornetto”, per intenderci) si impegna un po’ di più e riesce a far deragliare la conversazione con le ragazze fino a coinvolgere nella telefonata anche il fidanzato nudo della Chambers. Mi sembra il minimo!
Wet Leg è una raccolta di canzoni contagiose, divertenti ma non sciocche, che inseguono quasi sempre un’idea, un'immagine o una battuta, la scuotono e la agitano in maniera più o meno frenetica e dopo tre minuti passano a quella successiva con invidiabile disinvoltura. Vorrei la stessa arguzia e soprattutto vorrei la stessa capacità di affrontare ogni nuova giornata con quel passo, con quella risata in faccia tutte le volte che pensi cose tipo “I'm not sure if this is the kinda life that I saw myself living”. E per riuscirci, un disco così è senza dubbio un ottimo aiuto.
Il meglio che riesce a fare il più approfondito pezzo che ho letto intorno alle Wet Leg, una bella conversazione tra Ann Powers, Jacob Ganz e Hazel Cills pubblicata da NPR con il titolo di “Meme Girls: Three squares talk about Wet Leg, the band everybody's talking about”, si può riassumere in questo paragrafo: “Wet Leg is as fun to listen to as it is to think about, and in the band's loopy, addictive rock songs you can either turn your brain off completely, or turn your brain on to the sounds and styles of the far-reaching musical universe contained within it”. Non so, mi sembra un po’ asettico, no?
Almeno su Interview, il regista Edgar Wright (quella della “Trilogia del Cornetto”, per intenderci) si impegna un po’ di più e riesce a far deragliare la conversazione con le ragazze fino a coinvolgere nella telefonata anche il fidanzato nudo della Chambers. Mi sembra il minimo!
Wet Leg è una raccolta di canzoni contagiose, divertenti ma non sciocche, che inseguono quasi sempre un’idea, un'immagine o una battuta, la scuotono e la agitano in maniera più o meno frenetica e dopo tre minuti passano a quella successiva con invidiabile disinvoltura. Vorrei la stessa arguzia e soprattutto vorrei la stessa capacità di affrontare ogni nuova giornata con quel passo, con quella risata in faccia tutte le volte che pensi cose tipo “I'm not sure if this is the kinda life that I saw myself living”. E per riuscirci, un disco così è senza dubbio un ottimo aiuto.
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