Gli amici, la musica insieme a loro, la città. Una cosa sola e ogni cosa che non si può tenere senza le altre. Queste sono le influenze dichiarate nero su bianco nella piccola fanzine inclusa nell’album d’esordio delle Horsegirl. “Volete la verità o volete le Horsegirl?”. E anche se si tratta di evidente omaggio ai Minutemen, la verità di queste poche pagine, ancora più di quella che appartiene a questa dozzina di canzoni, è che qui le Horsegirl parlano delle band con cui sono cresciute, degli amici con cui dividono la sala prove, quelli con cui cazzeggiano nel basement, lasciano che siano i loro amici a colorare e scrivere queste pagine. Queste poche pagine, schiette e senza vanità, sono la semplice risposta alla domanda se vogliamo sapere ciò che è vero e che sta accadendo, oppure vogliamo che le Horsegirl corrispondano soltanto a quello che già immaginiamo di loro. Noi, saccenti ascoltatori di mezza età che vogliamo notomizzare la genealogia di ogni singolo feedback e riff di chitarra qui registrato, ma che non potremo mai più tradurre in parole la portentosa eccitazione che ti travolgeva la prima volta che ascoltavi Daydream Nation oppure Any Other City. La stupita frenesia del fare che sembrava l’unica e necessaria risposta alla bellezza che esplode tutto intorno. I can hear our hearts beating as one. La grazia sferzante dei vent’anni, il mondo nelle mani, “now feeling all the filth of the town / from the dance in the hall to the plans guitar”.
Volete la verità oppure volete le Horsegirl? Vi diamo tutto, vi diciamo tutto, non fate l’errore di capire soltanto quello che volete. Mi era arrivato l’album, l’ho strappato dal cartone, l’ho messo sul giradischi e dalla busta è uscita la fanzine. L’ho sfogliata mentre cominciava a lievitare lo sfrigolio elettrico di Electrolocation 1 (ah, la tracklist diversa per il vinile, so cool!), mi aspettavo di trovare i testi, forse un racconto o qualche foto della band. Invece parlava di altri ragazzi come loro, altre band che ancora non conoscevo. Le Horsegirl sono per la prima volta sotto i riflettori di tutto il mondo (“oh, nuove ragazzine sulla vecchia label gloriosa!”), si trovano al centro della scena per la prima volta e chissà se succederà ancora, eppure decidono di aprire questo spazio, di condividere questo spazio, di godersi questo spazio in compagnia, come hanno sempre fatto. Perché “the truth” non è lo spazio, ma il gesto che lo riempie. Questa pagina allo stesso modo di questo suono. Penelope, Gigi e Nora lo sanno, o magari lo hanno capito senza saperlo: non fa differenza.
Non basta giocare a ribaltare i Gang Of Four (“Sometimes I'm thinking that I lust you / But I know it's only love” – mi ha fatto ridere), prendere in prestito due coretti languidi dalle Breeders, oppure ciondolare indolenti e sarcastiche come giovani Pavement (la travolgente Dirtbag Transformation Still Dirty). Non basta tutto questo per conquistare già il mio personale premio di disco d'esordio più bello dell’anno, e non soltanto perché sia un bel disco, ma piuttosto perché sia bello, assurdamente e inverosimilmente bello il modo in cui è un esordio, e cattura e riassume tutto quello che un esordio deve essere, compresa la speranza che un esordio possa fermare il tempo. Quello che rende Versions Of Modern Performance delle Horsegirl un’opera d’arte meravigliosa e potente, oltre a tutto questo, è la sicurezza o se preferite la disinvoltura con cui, facendoci credere di parlare la nostra stessa vecchia lingua indie rock, facendoci credere di darci solo "versions", riesce a creare la propria lingua, alimenta la propria elettricità da nuove fonti, le chiama a raccolta, Post Office Winter, Friko, Lifeguard sono i nomi del presente, se siete pronti a correre. Afferma infine la propria verità mostrandoci che la verità non importa poi così tanto. In quel semplice mostrare già tutta la pienezza che occorre a questa band, a questo disco. “The guitar is dead”, dicono a un certo punto. Long live the guitar, ovviamente.
Non basta giocare a ribaltare i Gang Of Four (“Sometimes I'm thinking that I lust you / But I know it's only love” – mi ha fatto ridere), prendere in prestito due coretti languidi dalle Breeders, oppure ciondolare indolenti e sarcastiche come giovani Pavement (la travolgente Dirtbag Transformation Still Dirty). Non basta tutto questo per conquistare già il mio personale premio di disco d'esordio più bello dell’anno, e non soltanto perché sia un bel disco, ma piuttosto perché sia bello, assurdamente e inverosimilmente bello il modo in cui è un esordio, e cattura e riassume tutto quello che un esordio deve essere, compresa la speranza che un esordio possa fermare il tempo. Quello che rende Versions Of Modern Performance delle Horsegirl un’opera d’arte meravigliosa e potente, oltre a tutto questo, è la sicurezza o se preferite la disinvoltura con cui, facendoci credere di parlare la nostra stessa vecchia lingua indie rock, facendoci credere di darci solo "versions", riesce a creare la propria lingua, alimenta la propria elettricità da nuove fonti, le chiama a raccolta, Post Office Winter, Friko, Lifeguard sono i nomi del presente, se siete pronti a correre. Afferma infine la propria verità mostrandoci che la verità non importa poi così tanto. In quel semplice mostrare già tutta la pienezza che occorre a questa band, a questo disco. “The guitar is dead”, dicono a un certo punto. Long live the guitar, ovviamente.
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