I know I never crossed your mind

ALVVAYS - BLUE REV

“A quei tempi non ti avrei mai lasciato cadere a pezzi, ma le cose svaniscono come il profumo di un'auto nuova: perché mai dovrei innamorarmi di nuovo?” C’è un istante pieno di stupore, quasi alla fine di After The Earthquake, in cui la musica travolgente si allenta di colpo, si ritira come una marea di notte e la voce di Molly Rankin sussurra e al tempo stesso si schiude senza più difese, pronunciando la domanda decisiva di tutta la canzone, quella a cui - ora è chiaro - tendeva la melodia serrata e frenetica. Già, si chiede a quel punto ogni persona dotata di senno: perché mai innamorarsi?
A quei tempi, svanire, innamorarsi, perché mai: queste poche parole chiave mi sembra racchiudano in buona parte lo spirito di Blue Rev, il nuovo e magnifico album degli Alvvays. Il fatto che la strofa quasi scompaia, si sottragga a una dichiarazione troppo diretta, dopo che voce e musica si sono dati battaglia ad alto volume nei due minuti precedenti, è soltanto un altro tratto distintivo dello stile della band canadese. I racconti degli Alvvays non sono mai lineari: spesso riesci ad afferrare un sentimento generale, come visto da lontano, ma è quasi sempre complicato indicare un semplice sviluppo di fatti e conseguenze. È come se i testi, costruiti con montaggi veloci di epifanie, giudizi sommari, riflessioni tra parentesi e appunti per sé stessa, cercassero di riprodurre e rispecchiare lo stesso accumulo della musica, densa di strati di chitarre, riverberi, delay, tappeti di synth scintillanti, batterie e drum machine alleate, un fasto sonico sorprendente che serve ad accompagnare ogni modulazione della voce di Molly Rankin, dai toni più malinconici, quasi abbandonati, a quelli più agguerriti, delusi o esasperati. 
L’altra parola chiave di questo album, uno filo conduttore che attraversa quasi tutte le canzoni è “wait”. Se i ricordi e la nostalgia ci riportano al passato, al sapore di quella Blue Rev da quattro soldi bevuta nelle feste da ragazzi in provincia, restano aperte troppe domande su quello che sia davvero da fare oggi, quasi adulti, quasi rassegnati, quasi disincantati, in perenne lotta contro l'insicurezza. Gli Alvvays sanno mettere in scena questa sospesa frustrazione, questa incertezza dolente, anche nelle canzoni più euforiche, un talento che su di me ha sempre una presa implacabile. Voglio ancora le melodie più dolci e il rumore più sublime a raccontarmi le verità più amare. “Belinda says that heaven is a place on earth / well, so is hell” (a cui aggiungere, poco dopo, "it’s abundantly clear that no-one's been coming for me", a ribadire la consapevolezza della solitudine).
Il suono di questo album aggiunge una nuova pienezza all’idea di musica degli Alvvays, una nuova grandiosità. Se restano stabili certi punti di riferimento, dai Sundays agli Smiths, dai Teenage Fanclub ai Camera Obscura, bisogna riconoscere che il dream pop della band canadese è oggi più robusto, potremmo dire meno dream e più pop, più luminescente, terso, appassionato e maturo.


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