But we have to dream

SWANSEA SOUND - TWENTIETH CENTURY

Gli anni passano e ti senti sempre più deluso, scettico e insofferente. Racconti che il tempo ti ha fatto diventare cinico, ma in fondo sai bene che ti stai soltanto arrendendo a un’amara pigrizia. A cosa serve l’indiepop nel 2023? E ha ancora senso domandarselo, nell’epoca abbondante degli algoritmi, delle AI e delle canzoni come mero content? Forse il desiderio che aveva fatto nascere quella poetica, quell’idea di musica, quell’atteggiamento politico e quella presa di posizione intellettuale oggi appare irrimediabilmente lontano, naif, sempre meno comprensibile. O forse, al contrario, proprio a causa dello scenario frenetico e frantumato del presente, è meglio tenere ferme alcune certezze e qualche punto di riferimento?
Coerenza e integrità non sono per forza valori correnti e rilevanti nel mondo della musica, ma devo dire che il semplice fatto che oggi esista un disco come Twentieth Century, secondo album a nome Swansea Sound, mi appare come un invito a continuare a credere in tempi migliori, meno disperati e più giusti. 
Gli Swansea Sound si proclamano un non “corporate indie band” e come è noto sono nati dalla collaborazione tra Hue Williams dei Pooh Sticks, irriverente e fondamentale band dell’epoca C86, e Amelia Fletcher e Rob Pursey, fondatori di band storiche come Talulah Gosh e Heavenly, tra le altre, fino ai più recenti Catenary Wires. A loro si sono aggiunti il chitarrista Bob Collins (The Dentists, The Treasures of Mexico) e il batterista Ian Button (Papernut Cambridge, Death in Vegas e molti altri). Qualcuno potrebbe pensare che si tratti soltanto di un’allegra rimpatriata di musicisti di mezza età, un po’ nostalgici e un po’ sconsiderati, ma la freschezza del loro pop e l’acutezza delle loro idee arrivano e brillano forti e chiare.
Le canzoni di Twentieth Century a volte sono più agguerrite e a volte si concedono un po’ di ironico romanticismo. Possono raccontare il presunto paradiso del paesaggio digitale contemporaneo che consuma ambiente e lavoratori (“Servers hum and miners die”, recita un notevole verso della canzone di apertura Paradise), oppure l’irriducibile avversione per divise e forze dell’ordine (chissà se l’ansiogena I Don’t Like Men in Uniform allude ai Gang Of Four), oppure ancora la svalutazione della cultura contemporanea (nella pessimistica Greatest Hits Radio così come nella divertente scenetta del mercatino di seconda mano di Keep Your Head On). Eppure, il filo conduttore che sembra attraversare tutte queste canzoni è quello di un irriducibile carattere sovversivo, perspicace e pungente, sempre pronto a smascherare le lusinghe del mercato e le illusioni di questi anni. 
Allo stesso modo, mi pare che il semplice elogio dei bei tempi andati non sia qualcosa che interessa davvero agli Swansea Sound: anzi, una canzone come Punish The Young, per esempio, se la prende proprio con chi, per una pura questione anagrafica, gode di irragionevoli privilegi sulle spalle di tutti noi.
E se qualche volta gli Swansea Sound si concedono di cantare il passato, lo fanno per qualche buona ragione: magari per rendere omaggio a una figura di “true Twentieth Century hero” come quella di Pete Shelley (Far Far Away), oppure per cercare di trasmettere l’entusiasmo delle scoperte musicali giovanili (Seven In The Car).
Un entusiasmo che gli Swansea Sound sanno, nonostante tutto, proiettare nel futuro nella dolcissima canzone di chiusura, Pack The Van, che partendo da un ricordo di una spiaggia nel Galles racconta l’amore per la musica in cui questi musicisti ancora credono, la speranza che, disco dopo disco, resiste agli anni che passano.
But we have to dream
And we still have lives to lead


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