"I like noise"

Steve Albini in the control room at his Electrical Audio studio in Chicago.  Photo by Kevin Tiongson

Negli ultimi giorni, nonostante la tristezza abbastanza diffusa e quel tono quasi incredulo che persiste nelle parole di tutti, Internet è tornato a essere un luogo in cui è più bello e interessante passare un po’ di tempo: nella mia bolla, tutti si sono messi a condividere musica, parole, video, foto e ricordi di Steve Albini, scomparso all’improvviso. Scorrendo i feed percepisci all’istante la riconoscenza e l’ammirazione che questo nome riesce a evocare in tutti, e torna quasi a prendere forma quella sensazione di comunità che ormai è svanita dietro a mille altre sterili futilità.
Sono usciti anche tantissimi articoli e tributi davvero molto belli e appassionati, e probabilmente altri ne usciranno nelle prossime settimane. Tra quelli che ho letto, per ora segnalo qui:
Oltre ai ricordi e agli aneddoti, mi ha fatto davvero molto piacere leggere così tante volte di etica e musica, di nuovo, almeno per qualche momento, così profondamente unite.
Io non posso certo dichiararmi grande fan di Big Black o Shellac, del loro suono brutale e dirompente, eppure bisogna essere proprio sordi per non capire che, se l’indie rock ti ha formato (se preferite, chiamiamolo più genericamente “alternative”, come nei Novanta), allora in maniera più o meno indiretta Steve Albini ha dato qualcosa anche a te. Se ami qualche band indie rock e hai in casa anche una modesta collezione di dischi, è molto probabile che il nome di Steve Albini sia dentro qualcuno di questi.
In questi giorni sono state ricordate ovunque le più importanti band con cui ha lavorato, come Pixies, Nirvana, PJ Harvey o Breeders. Eppure, basta guardare appena oltre per ricordarsi che Steve Albini ha messo le mani anche in decine e decine di dischi che non hanno mai avuto nemmeno un centesimo della visibilità di Surfer Rosa o In Utero. Anche questo faceva parte del modus operandi di Steve Albini: lavorare insieme a chiunque, senza differenze, con lo stesso approccio e la stessa attitudine, dando a tutti qualcosa della propria esperienza, continuando a farsi chiamare “tecnico del suono” e non “produttore”, per prendere le distanze, anche nei piccoli dettagli, dal sistema del business musicale. Non si resiste alla tentazione di mettersi a fare liste: per esempio, non potrei dimenticare fuori da queste righe i dischi di Bedhead e New Year, oppure i Wedding Present o i Low oppure, per citare un nome degli anni più recenti, i Cloud Nothings. Anche in Italia, diverse importanti band hanno avuto la fortuna di collaborare con Steve Albini, dagli Uzeda ai nostri Three Second Kiss. 
E poi mi basta cercare un altro po’, e mi ricordo che c’è un po’ di Steve Albini anche dentro questo piccolo blog. Per esempio, nel secondo album dei miei amati e sgangherati Let’s Wrestle, Nursing Home del 2011, il loro disco più maturo e coeso (anche se forse un po’ meno slacker, curiosamente). Oppure nel fragoroso Blast del 2015, del trio australiano Love Of Diagrams, che cercava una interessante terza via tra Sonic Youth e shoegaze. Oppure nel capolavoro The Power Out delle Electrelane (2003), album che mescolava aggressività indie rock con algide atmosfere kraut, riuscendoci con fascino ed eleganza. Ma forse, tra i “miei” dischi di Steve Albini, quello che preferisco rimane Celebration Castle, secondo lavoro dei sempre troppo sottovalutati The Ponys di Chicago, di cui tra l’altro faceva parte Brian Case, padre di Asher Case degli attuali Lifeguard. Quell’album, in bilico tra chitarre impetuose e melodie indiepop, magari è il classico disco che Steve Albini può avere registrato in tre giorni pensando alle partite di poker della notte, ma intanto era capace di farlo comunque suonare alla grande, e per me è clamoroso e riesce a catturare quel suono strappato che mi fa ancora sentire l’elettricità sotto pelle. 
Ecco, quello che mi lasciano in testa questi giorni pieni di commemorazioni e ricordi è che davvero ognuno ha il “suo” Steve Albini, e che a ognuno Steve Albini ha lasciato qualcosa. E se questo non è il segno di una assoluta grandezza e rilevanza musicale non so davvero cosa possa ormai esserlo.


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