Il mio regalo è starti più lontano che si può

SETTI - AL MARE (LA BARBERIA RECORDS, 2024)

Finisce l’estate e io vado al mare. Domani mattina mi troverete seduto puntuale al mio posto, tornato dietro la scrivania in ufficio, ma starò ascoltando Al mare, il nuovo album di Setti, e sarò appena partito, lontano, tra una spiaggia, un bar che non esiste, un mulino nel bosco sulle colline e il Nord Dakota. Il cantautore modenese (ora marchigiano d’adozione), dopo sei anni, ha finalmente dato un seguito ad Arto, e queste nuove undici canzoni mi accarezzano, mi circondano, mi abbracciano e mi sommergono come onde dentro cui non posso fare altro che perdermi.
Com’è logico aspettarsi da Setti, appena il disco prende il largo smarrisce la rotta: si parte con uno strumentale (siamo già senza parole) e anche il titolo sembra arrivare spezzato, interrotto: “Al di sopra di ogni”. Ma non è un ripensamento: stiamo andando alla deriva e lasciamo che la corrente ci porti dove vuole. Cazzo è il singolo che aveva anticipato l’uscita del disco, una canzone che - tra le altre cose - racconta la presunzione di quegli adulti che credono di essere arrivati a capire tutto e giudicano la beata ignoranza della gioventù. Ma tra i versi si inseguono molti altri personaggi e pensieri fulminanti: “vorrei tornare indietro, per perderti di nuovo, meglio”.
Qualcosa di quel filo di pensieri, tra disillusioni taciute e amarezze represse, torna anche nella storia di Bar: “una giornata senza te fa venire voglia di ballare”. Tutti le occhiate tristi dei camerieri che per una vita ci hanno guardato allontanarci in silenzio fanno il coro sullo sfondo.
Qui, come in altre canzoni di Setti, quello che mi piace tantissimo è quel suo modo peculiare di riuscire a essere anche malinconico senza mai cedere alla nostalgia. Navigando ostinatamente controcorrente, Setti cerca in continuazione un porto sicuro nel suo sguardo surreale: “Ho perduto tutto quello che ho senza capire quello che ho”. Lo smarrimento del nonsenso un po' Camillas è l’unica bussola su cui fare affidamento per davvero: “Se io fossi una banana guarderesti solo me / una banana che cantava ce n’è poche, non ce n’è”. Il rimbombo assillante di “tutti quei fa-fa-fa nella testa” sono quello da cui si scappiamo oppure l’isola deserta su cui speriamo di naufragare? (“voglio te, un giradischi e basta”). E chissà se sulle strofe country di Frank dobbiamo immaginare il mascherone di cartapesta di Lenny Abrahamson che galleggia come una solitaria boa.
In mezzo al mare arrivano folate di musica che mi riempie il cuore: Dinner Party testimonia l’amore di Setti per la scrittura degli Eels e dei R.E.M. (e intanto sembra racchiudere con disinvoltura tre racconti intrecciati); la struggente Filo d’ansia della sera potrei immaginarla in una cover di Beck (una buona ispirazione per cantare “la nostra vulnerabilità”); ma forse la mia preferita è la conclusiva Olive, una canzone in tre atti, in cui i primi due, sporchi e scarni, mi ricordano la bassa fedeltà incrinata, satura e commovente del Daniel Johnston epoca Fear Yourself, accompagnato da Mark Linkous degli Sparklehorse, una direzione che Setti potrebbe provare a prendere ancora, la prossima volta che salperemo assieme. Per ora godiamoci questo mare, contro lo sconforto della fine stagione.



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